Raccontato dall'autore
Oggi, 02/02/23, inizio a raccontare di un lavoro, questo, che per adesso è solo nella mia testa, ma che spero di iniziare in giornata, verso sera suppongo. Sono ormai fermo da tre mesi e più, un lungo periodo in cui mi sono perso a fare, a pensare e a contrastare, tra le altre, l'ignoranza altrui che mi perseguita. Mi sono, per questo motivo, logorato la mente, lo spirito e il corpo. Non è stato un periodo di riposo, di relax, ma un periodo faticoso, stressante. La causa principale di questo “logorio della vita odierna”, per quanto mi riguarda, è l'ignoranza che mi circonda, che mi avvolge e mi soffoca in ogni dove; è l'ignoranza che non mi dà pace e mi alita addosso tutta la sua insopportabile umana putrefazione. L'ignoranza è subdola, mi nasconde dappertutto, anche sotto abiti lussuosi, dentro le case più costose, dentro le macchine di lusso, all'interno di uffici istituzionali; all'interno delle troppe teste vuote che occupano gran parte dei posti di comando, credo di poter dire, in tutto il mondo. Non c'è mai stato un momento nella mia vita in cui non mi sia dovuto scontrare con l'ignoranza. L'ignoranza non la si riconosce subito, di solito è solita presentarsi sotto vesti ben confezionate, con camaleontiche trasformazioni che inevitabilmente traggono in inganno le persone ingenue, e anche un po' tonte, come lo sono io. Poi, quando meno te lo aspetti, escono allo scoperto, si esprimono là dove dovrebbero tacere, come sarebbe buona norma fare, e allora si capisce che sei finito in trappola, che non hai più scampo. Non sempre è possibile uscirne fuori facilmente; a volte nella trappola ci devi rimanere, forza maggiore, e allora sono guai, guai seri. Troppi gli episodi da raccontare, troppe le volte in cui mi sono dovuto difendere dall'ignoranza, perché se l'ignoranza decide di avere a che fare con te, di attaccarti, ti prende di mira ed è praticamente impossibile difendersi; non hai mai le armi giuste per difenderti, e sei fottuto. Non sto dicendo nulla di nuovo e lo so bene, anche perché ogni volta che cerco di dialogare con l'ignoranza, di trovare un accordo, di mediare, mi tornano sempre alla mente le parole di Friedrich Schiller: “Contro la stupidità/ignoranza degli esseri umani, gli stessi Dei combattono invano.” Quindi capisco che ogni mio sforzo è e sarà sempre altrettanto vano. Sì, anche questo è uno sfogo, uno sfogo sempre pronto a manifestarsi, tanto sono immerso/attorniato di putridume umano fatto di tanti soldi e pochissimo cervello. E per rendermene conto in modo così radicale, sono venuto proprio nel posto giusto, presso la Scuola Superiore degli Ignoranti di Verona. Una Scuola privata, dove i tanti soldi che circolano hanno soppiantato il cervello e annebbiato la vista di chi la frequenta e la abita; di certo i più, e di più non si può dire.
Mi interessa piuttosto, molto di più e sempre più convintamente, in quanto direttamente coinvolto, approfondire qui l'argomento che tratta del rapporto madre e figlio. Per questo motivo dichiaro di aver voluto consapevolmente – perché questo è – coinvolgere attivamente mia mamma all'interno di questa mia parte – l'ultimo atto - di vita. Un coinvolgimento indiretto perché non premeditato, non cercato, ma furbescamente introdotto e subito intelligentemente confezionato, casomai, a regola d'arte. Ritengo doveroso almeno provare a spiegare – per quanto mi riesca farlo – che genere di rapporto e relazione c'è in concreto, all'interno di questo coinvolgimento/progetto. Per questo sono andato a ripescare quello che mi era già noto, tra Pier Paolo Pasolini e sua madre Susanna, anch'esso da decifrare. Si decifra tutto ciò che non è immediatamente comprensibile e, come si declinano i verbi, così si declinano i rapporti tra genitori e figli; per tutto il resto esiste il Manuale delle Giovani Marmotte. Quello che caratterizza il rapporto con mia madre, a differenza di quello che è stato per Pier Paolo, non è stato l'incomprensione di una diversità generazionale da gestire, ma, nel nostro caso, può essere stato il pretesto colto al volo da quel farabutto – un brutto molto furbo - di uomo che per interesse e gelosia, ha opportunisticamente confezionato a misura sua e solo sua, una sorta di abito molto stretto dentro il quale non era previsto che ci entrassi anch'io. Tutto questo in Pasolini manca, e altro ci accomuna. Enrichetta è stata una bambina molestata da piccola – il nome non si può dire, tanto è grave il fatto -, è stata una ragazzina che, quando si trovava sul camioncino con suo padre per trasferirsi dal trentino al mantovano, vedeva le montagne abbassarsi e svanire via, e un nuovo mondo fatto di pianure e di infiniti corsi d'acqua mai visto prima le si materializzava ai suoi occhi, e mandava in confusione la sua mente. Enrichetta, aveva solo 15 anni e per la prima volta, è proprio il caso di dirlo, scopriva mondi nuovi. Prima la pianura mantovana e poi la città di Verona. Da un territorio in cui gli anziani ancora parlavano un poco di tedesco ed obbligatorio andare a scuola fino alla sesta elementare, in cui i caratteri erano asciutti e scorbutici, dove ancora gli uomini comandavano e le donne dovevano solo ubbidire, la piccola Enrichetta si era trovata a fare i conti con un mondo che all'inizio doveva apparirle come un paradiso, ma questo era solo il primo impatto, perché poco a poco, quel paradiso, si trasformerà in un inferno. La seconda di tredici figli – i primi, due gemelli -, la sorte di Enrichetta era segnata: ai lavori forzati lei era stata destinata.
Avviata alla “carriera di domestica” dai nonni – il bisogno lo imponeva, ma non per tutti alla stessa maniera –, un po' di qua e un po' di là, trovò pace solo in casa della famiglia del dott. Sonzio, in Via Isonzo, nel quartiere di Borgo Trento; guarda caso lo stesso quartiere e zona da cui adesso, 64 anni dopo, sto scrivendo, sto dipingendo, e ci abito. All'epoca stavano costruendo una gran parte di tutti quei palazzi intorno a Via IV Novembre e, di fronte a quello in cui lavorava e abitava Enrichetta, ce n'era uno in costruzione da dove, il figlio del capocantiere, un bel giovane tutto muscoli e tanta simpatia – così lo ricorda Enrichetta -, le faceva la corte, le mandava i bigliettini con frasi da innamorati. Enrichetta però, sembra che se la tirasse troppo, o forse – ne so qualcosa io – era semplicemente timidezza, e dopo essere uscita una sera a ballare, - zona San Zeno di Montagna - con una collega, lui la prese male, e non volle più saperne. All'epoca bastava un niente per essere considerate donne di facili costumi; questo accadeva nel 1956/57. Non so come e non so quando di preciso, ma nel 1957 Enrichetta conosce “quel tipo” che subito dopo l'ha messa incinta. Quel tipo – mio padre biologico – lavorava come civile nella caserma che stava di fronte al vecchio stadio Bentegodi, vicino a quello che sarà anni dopo il mio Liceo Artistico e in seguito l'Accademia di Belle Arti: “Disegno artistico” del destino. Dopo aver saputo che Enrichetta era rimasta incinta, il tipo non volle più saperne. L'ingenuità di Enrichetta, l'onta subita – povera ragazza -, e la reazione dei suoi genitori che vissero il tutto come lo scandalo del secolo – non era il primo nella famiglia Dossi -, fecero scatenare un putiferio intorno alla famiglia del tipo, che abitava in Via Scrimiari, quartiere di Veronetta. I miei nonni si presentarono a casa sua con l'intento di parlare e convincere i genitori di questo tizio, ma niente. La madre del tipo si era perfino spinta ad offrire il denaro sufficiente per far abortire la povera Enrichetta. Anche la Signora Sonzio, che aveva a cuore Enrichetta, come una figlia, si fece avanti per convincere la madre del tipo, ma niente. Certo che da quello che sono venuto a sapere – tutte informazioni che non hanno più di 8/10 mesi -, pure la madre del tipo era una tipa – femmina -, nel senso di una donna che, probabilmente, aveva in mente per il figlio qualcun'altra, sicuramente più blasonata di Enrichetta. Non ho mai saputo più nulla di questo tizio, che sembra si chiamasse Andrea, anche se nulla sembra certo dopo più di sessant'anni, di certo è che anche allora, a certuni, piaceva molto vincere facile. La povera Enrichetta, provatele tutte, si era dovuta accontentare di tenere quel figlio: per la cronaca Mauro, il sottoscritto. Nessuno mi toglie dalla testa che durante i nove mesi di gravidanza, la povera Enrichetta ebbe modo di maledire il momento in cui si era data a quel tipo e, per questo non la biasimo, anzi, ma resta il fatto che oggi questo andrebbe letto e studiato, sicuramente non così facilmente archiviato. Ma si sa, a ragionare troppo non va più bene, non va più di moda, e nessuno avrebbe voglia e capacità di comprendere. Il parto avvenne sempre qui nei paraggi, sempre vicino a dove ora vivo e lavoro, in Via Antonio Provolo, nella “Casa di Mamma Silvia”. Battezzato nel bellissimo complesso conventuale francescano di San Bernardino, risalente alla metà del XV secolo, trascorsi i sei mesi, mia mamma ed io siamo andati a stare – rende meglio l'idea, tipo profughi - dai nonni, i quali ancora vivevano a Maglio di Goito, nella steppa sterminata a 40° sopra zero del bel mezzo della provincia di Mantova. Avevo ormai compiuto un anno e mezzo quando, per caso, entrò nella nostra vita Giuseppe Pavan, che veniva a trovare mia mamma da Grole di Castiglione delle Stiviere, con la Vespa. Un uomo di sicuro disperato altrettanto, altrimenti non si capirebbero tante cose..., ma questo è del tutto secondario. Quello che so, quello che mi è stato sempre raccontato da mia mamma, è che Giuseppe, detto Pino, mi voleva, ci voleva, tanto bene. Nel 1960 Enrichetta e Pino si sposano, con il piccolo Mauro che girava dappertutto tra i tavoli degli invitati, probabilmente felice, ma ignaro del suo destino, non meno amaro di quello dei suoi “nuovi genitori”; ma questo è, o prendi, o lasci, e io non potevo lasciare, ho dovuto prendere. “Mi raccomando Mauro”, queste le sue ultime parole dette a Enrichetta all'ospedale di Castiglione, dove a luglio del '63 è morto. Da qui, necessariamente seguirono cinque anni in collegio per le elementari – ricordo ancora oggi i calci che ho dato alla direttrice “Signorina” Ada il primo giorno in cui mi ci portarono -. Anteporre l'appellativo “signorina” prima del nome, ogni volta che si nominava una suora di quell'ordine, era d'obbligo; un po' come anteporre il titolo di dottore a chi lo è quando lo si nomina o chiama. Tutto questo mentre Enrichetta, dal lato suo, lavorava sodo, e ancora quando si dice “lavorare sodo” non rende l'idea di quanto quella giovane madre rimasta vedova si era gettata anima e corpo nel lavoro. Non credo solo per dimenticare e non pensare sempre alle sue sventure di donna e di madre, di moglie e di vedova a soli 27 anni, non solo perché si stava costruendo una villetta nuova di fronte allo stabilimento Wella dove lavorava, ma credo in particolar modo per non fare mancare nulla al figlio Mauro. Quanti e quali i pensieri che attanagliavano la mente di quella povera ragazza, con un figlio da mantenere: almeno lui, per Enrichetta, naturalmente uguale agli altri? Ho passato quei cinque anni in collegio a Castiglione, un collegio posto sulla collinetta in zona Palazzina, e in quel collegio ho fatto le elementari, ed ho imparato a rifare per bene il letto ogni mattina e a piegare per bene i calzini. Ho imparato - per forza ci insegnavano a stare al mondo con il fine di saperci arrangiare – anche altro, altro che manco nelle caserme di quei tempi insegnavano: A lavarci le mutande se sporche, prima di andare a letto la sera. Enrichetta lavorava sempre, e sempre molto sodo, anche perché in quegli anni stavamo tirando su, come dicevo, la nostra villetta ai piedi del Belvedere: la Beverly Hills di Castiglione delle Stiviere di quei, davvero mitici, anni '60. Una villetta tipica di quegli anni, una come tante che si vedevano spuntare come i funghi da un mese all'altro e che hanno fatto di Castiglione delle Stiviere un grande polo industriale dell'alto mantovano e di tutto il basso Garda. Anni semplici, anni genuini, non poveri, ma anni in cui comprare al sabato, appena uscito uscito da scuola nel fine settimana che ci era concesso passare a casa, il pollo arrosto con le patatine fritte, equivaleva mangiare seduti alla tavola dei marchesi Gonzaga. Le api sul miele hanno iniziato a ronzare presto, anche perché il miele era buono, ancora genuino, e ancora naturale. Io in collegio e la giovane Enrichetta nella nuova casa, mai finita, a lungo con un cartone al posto della porta d'ingresso; ma i tempi ancora lo permettevano. Trascurando tutte le api – veri calabroni - che ronzavano intorno al miele trentino, una vera e propria melata di bosco è il caso di dire, viste le origini, biondo e molto dolce, solo impercettibile quel retrogusto di amaro, tipico del bosco di montagna, quella che si posò sul miele di Enrichetta è stata un'ape molto a modo, scafata, furba, opportunista, ma anche molto gentile e intelligente; e a me questo ha giovato moltissimo. L'ape Carlo C. era un uomo molto maturo, rispetto a Enrichetta, ricco e colto. Da questo colto andirivieni con la sua Giulia blu Alfa Romeo – una volta nei panni del gatto, un'altra in quelli della volpe -, in quegli anni Mauro ne ha tratto solo bellissimi e ancora indimenticabili vantaggi. Sogni infranti troppo presto però, di cui non conosco il motivo e, sinceramente, oggi come oggi, poco mi importa di conoscere, tanto sono stanco di tutto. Poi arriva l'anno fatale, l'anno della prima media, quando, non capirò mai sulla base di quale considerazione, Enrichetta decise di tenere Mauro a casa da solo, dando tutto per scontato. Ma tant'è, è rimasta proverbiale ancora oggi la sua ingenuità di donna: mai vera madre, mai vera moglie; non con me, non con suo figlio. Quello che è successo dopo era già tutto scritto, bastava solo studiarlo meglio. Infatti, peccato non averlo capito prima, ma anche in casa nostra nessuno era già nato imparato. In quella grande casa nuova e mai finita, era la paura – meglio sarebbe parlare di terrore, tanto ho patito per decenni gli incubi avuti nei sogni che facevo di notte all'interno di quella casa che si era trasformata in un vero inferno - a comandare. In quella casa nuova e mai finita, diventata una fortezza, rimanendoci chiuso dentro quelle mura da solo – aspettando con ansia che mia madre rientrasse dal lavoro -, isolato da tutti, solo con me stesso, ho potuto esprimermi come si esprimevano i garzoni quando da giovani, molto giovani, venivano mandati a bottega da un maestro affermato, per imparare un mestiere. Io, in quella casa grande e nuova, mai finita, in quell'anno maledetto della prima media, avevo già imparato tanti mestieri. Non tutti questi mestieri in seguito mi sono serviti, infatti ho cercato altrove i pantaloni, perché nell'armadio di mia madre non c'erano. Tanto altro è successo che qui non serve raccontare tanto non servirebbe ad aggiungere niente di importante per chi è sempre stato estraneo a certi mestieri. Troppo è successo in quell'anno di “particolare” per la mia crescita. Ero ancora un bambino, ma in quell'anno scolastico del 1968/69, sono stato promosso a pieni voti, e sono passato subito da bambino a sergente maggiore. La cosa strana, per certi versi inspiegabile ancora oggi, è che se da un lato sono stato promosso molto presto ai vertici della vita, dall'altro sono sempre rimasto un po' rincoglionito/ingenuo – bambino - e relegato nei bassi fondi di una vita mai vissuta, ma per questo sempre piacevole da scoprire come fosse una favola mai finita. La mia fragilità – consapevolezza della diversità - ha fatto nascere, meglio sarebbe dire scoppiare, dentro di me una energia pari a quella di un vulcano in perenne eruzione. Una eruzione perenne di tutto, di tutto il conoscibile che mi è stato dato di possedere finora. Resta comunque la consapevolezza di questa diversità che io non ho mai percepito come anomala, almeno fino a quando la “servetta” Enrichetta non si è trovata di fronte una figura che era già stata insignita con i gradi di “generale di briganzia”. Questo generale appartenente al corpo dei falliti, si chiamava Giovanni. Questo essere spregevole di genere brutalmente maschile – in tutti i sensi –, in una lettera inviata a mia madre nel 1976, si permetteva – spregevole appunto, in quanto il fallimento del suo matrimonio esigeva prontamente una bella e giovane pecora sacrificale - di scriverle: “...smettila di fare la servetta con il lavoro e la vita che fai, e vieni da me, perché io ho bisogno di te”. Vigliacco lui, che era stato da poco buttato fuori casa dalla moglie, e povera donna di mia madre, che era scesa dalle montagne candida come la neve, anche se di neve ormai sporcata stiamo parlando. Vigliacco lui, perché da “generale di briganzia”, un uomo solo apparentemente tutto di un pezzo, in realtà un poveraccio, ha avuto la schifosa spudoratezza di chiedere a mia madre 5 milioni delle vecchie lire per la separazione dalla sua ex moglie Francesca; era il 1976. La mia non è e non vuole essere cattiveria gratuita nei confronti di chicchessia, tanto ormai..., men che meno nei confronti di mia madre, che con tutti i mezzi possibili e immaginabili di cui dispongo, ho cercato in tutti i modi di capirla, non di giustificarla, ma di capirla sì. Questo mio insistere su quanto accaduto a mia madre, sulla sua vita e, di conseguenza, quanto questo abbia influenzato negativamente sulla mia di vita, ancora troppo giovane, ancora troppo presto, e cosa ho dovuto fare per sopravvivere e, in qualche modo, alla meno peggio uscirne fuori, nessuno, e ripeto nessuno, potrà mai capirlo fino in fondo. Sono peraltro convinto che in questo 2023 tutto si risolverà, nel senso che tutto troverà la sua pace, sedimentata dentro un loculo ancora fresco di malta e silicone. Oggi 08/03/23 ho concordato con il cimitero di Castiglione delle Stiviere e con il marmista Bettari di Carpenedolo, che sabato 18/03/23 mia mamma e io saremo stati presenti per la tumulazione di “Pino” Giuseppe Pavan nel nuovo loculo, con tanto di foto con noi tre insieme e, da quello che so, felici. In quel nuovo loculo c'è posto per un altro/a.
Era il 1977, da poco mi ero diplomato
Tanti e confusi i sogni per il mio futuro
Poco il tempo concesso per decidere da adulto
Ti sei fatta plagiare da tutti, perché?
Mi hai insultato, disprezzato, perché?
Mi hai respinto come si respinge un appestato, perché?
Sei scappata via, perché?
Eppure io ero pulito
Stavo educatamente scoprendo il mio mondo
Andavo fiero dei miei voti
Andavo fiero della mia passione artistica
Non ti conoscevo / Non mi conoscevi
Eravamo come due estranei
Ma tu restavi pur sempre mia mamma
Io non capivo / Tu non capivi
Ma io ero pur sempre tuo figlio
Eppure sei scappata da me, perché?
Paura genitoriale da un lato e lusinghe assassine dall'altro
Hai preferito le lusinghe trasformate in poco tempo in: Taci donna!
E ora, che il cerchio si è chiuso, mi dici: Cosa farei senza di te?
No, non funziona così, donna/madre
Non so nemmeno io come chiamarti
Tanto mi fa uguale, adesso, chiamarti donna o madre
Tanto devo ancora capire, adesso, chi sei veramente
Malgrado tutto, ancora oggi
Non riesco a provare quello che avrei voluto provare da figlio
E chissà, se tu, provi davvero quello che avresti voluto provare da madre
Non lo sapremo mai
Tanto, a che serve capire ciò che finora è andato così
Il destino ha voluto questo
E ora, quando ti bacio, sento il freddo sulle mie labbra
Quando ti guardo, vedo il vuoto che sta dentro di te
Quando ti parlo e mi arrabbio, provo il gusto della vendetta
Insomma, che dire, una madre e un figlio così
Ma va bene così, perché è andata così
Questa è la sola diversità che vedo
Per tutto il resto, è normale routine
Un'ultima cosa:
Quando ti guardo non vedo solo il vuoto cosmico
Vedo anche l'amore che solo i tuoi occhi hanno saputo dire
Enrichetta, che altro ancora... adesso aspetto solo la fine
Ma prima che giunga quel giorno
Ti prego, asseconda i miei capricci
Ambizioni di un artista che tu non puoi capire
Per questo, quando ti chiedo di fare la tua parte
A suggello della mia, per ora vana, gloria, per favore
Non badare a spese:
Smetti i panni di donna
Smetti i panni di madre
E sii una volta ancora solo Enrichetta
Verona, 14 febbraio 2023 – Puramente per caso il giorno di San Valentino
Oggi, domenica 19 febbraio, questo lavoro è quasi terminato.
Nascita / Matrimonio / Vita Nuova / Inizio / Infanzia e Adolescenza / Purezza / Assenza di peccato / Genuinità / Aspirazioni / Voglia e desiderio di diventare “IO” / Studio / Sesso / Morte. Voglia di sognare sempre / Voglia di un “giovane” uomo di pensare sempre in positivo, NONOSTANTE TUTTO. Voglia di un “giovane” artista di diventare un ARTISTA MATURO.
In sintesi questi sono i messaggi che escono fuori, ma che restano CONFICCATI dentro questo lavoro; perché ciascuno di questi messaggi, a loro modo, lo rappresentano, SEMPRE.
Non c'è amore nel mio cuore
Il sangue è freddo ormai
Le rose non profumano più
E il cioccolato resta amaro
I colori dell'autunno sanno di morte
Niente sembra avere più un senso
Quando il piacere si offre solo in ginocchio
Piacere e sacrifico si mescolano, e mi confondono
La mia vita è complementare alla sopravvivenza
La felicità non dà più frutti
E il seme, ormai, è privo di sostanza
Tutto è confuso, e ciò che è amaro, è buono
Niente era stato calcolato
Contare non è mai stato il mio forte
Allora perché l'ho fatto?...
Perché prima faccio, e dopo si vedrà...
L'istinto prevale sulla ragione: quale ragione?
Niente mi apparteneva più
Ma sono fatto così, prima il dovere
Il resto è solo il peso di una croce
Una croce nata con me
Perché Dio ha deciso così
Quale Dio non so, ma un Dio c'è
Dall'alto di un Olimpo o di un Calvario
Mi tiene sulla corda e mi mette alla prova
Ma io non ho chiesto nulla
O forse sì, ma stavo scherzando: eh eh eh...
In forma di preghiera, ma senza un credo
Perché altro non vedevo intorno a me
Forse ho voluto strafare: non si gioca con il fuoco!
E un Dio cattivo mi ha accontentato
Chiesa e collegio mi hanno insegnato
Prima il dovere e dopo... non si sa!
Ti devi accontentare di un limone e una liquirizia
Così funziona quando è il segno della croce
Che ti marchia la vita e macchia la mutanda
In questa poesia ho sintetizzato tutto quello che la performance allestita per “Concetto Temporale 23/1” rappresenta, per mezzo di oggetti, persone e concetti, appunto, qui vivi e morti, ma sempre presenti. La figura di Enrichetta resta per me fondamentale, senza la quale, questa rappresentazione, tutto il suo significato, non avrebbe alcun senso. Ma come, si potrebbe pensare che, dal momento che ci sono già io, e che praticamente ho sempre vissuto e fatto tutto da solo, questo basterebbe a raccontare e a riempire tutto. Perché la presenza di mia madre è diventata improvvisamente così importante? E' presto detto: Tutta la mia vita è trascorsa con la consapevolezza di avere una madre che mi aveva abbandonato, ma che dentro di me sapevo e sentivo che mi amava ancora, o meglio, che non aveva mai smesso di amarmi. Si potrebbe obiettare che l'avermi abbandonato non può di certo definirsi una forma di amore, ma non è proprio così. La sua fragilità di donna mai cresciuta, di ragazza madre, di vedova a 27 anni, di donna e amante con la voglia di rifarsi una vita, e con la paura di ripiombare di nuovo in un baratro, l'hanno tenuta lontana da tutto ciò che era “buono”. La paura di sbagliare, di non farcela, di non essere all'altezza, l'ha tenuta prigioniera di se stessa. Finché un giorno, la povera ragazza, sempre ingenua, con un figlio che cresceva troppo sano di mente, troppo sano di mente e poco sano per le prospettive che la tradizione borghese e cattolica imponeva, si è lasciata andare, ingenuamente, meglio sarebbe dire stupidamente, nelle braccia dell'uomo più vigliacco che potesse incontrare sulla sua strada. Sono cresciuto vedendo e assorbendo passivamente – tutto torna – questo. Questa è stata la mia più grande croce, una croce pesante da portare, pur facendo finta, a volte, che fosse leggera e poco ingombrante. In sintesi, fin che mi sarà possibile farlo, di sicuro vorrò vicino mia madre anche per la prossima performance, e sarà la terza – al destino piacendo -, a sottolineare la sua importanza – comunque siano andate le cose - nella mia vita. Una presenza la sua – come ho già avuto modo di dire –, assente, ma che per questo, ha rafforzato la mia di presenza, una presenza, oggi, forte e determinata; una presenza quasi compiuta e soddisfatta, perché matura e consapevole.
Sabato 18 marzo 2023 Ho portato mia mamma al cimitero di Castiglione delle Stiviere per la definitiva sepoltura – cassetta non proprio piccola con le ossa – nel nuovo loculo di Giuseppe Pavan. Tutto come previsto, tutto bene, tutto bello – il bello è necessario sempre e ovunque -. Ho potuto toccare la cassetta con le ossa, prima che fosse messa dentro al loculo; una cassetta grande e pesante, e che un certo effetto me l'ha fatto. Domenica 19 marzo, si festeggia San Giuseppe, la festa del papà, la cosa, purtroppo, non mi ha smosso nulla dentro, ma per mia mamma è stato diverso. Enrica dice di aver fatto un sogno in cui, ad un certo punto, da una finestra usciva un uomo che le sorrideva e, per mezzo di una lunga tavola di legno, una trave lunghissima, infinita, si allontanava scomparendo nel cielo; sembrava che scomparisse nell'immensità dell'universo, ha precisato Enrica. A dire il vero ho provato un po' di invidia nel sentire questo racconto, perché io non ho avvertito niente di niente e non ho sognato niente di niente, ma poi, pensandoci su bene, mi sono detto che io non ho bisogno di sognare nulla, sapendo di aver fatto il mio dovere fino in fondo, sento di essere a posto e appagato così. E tanto basta, per come, da laico, la vedo io.
Provo a raccontare meglio “Limone e liquirizia”:
Non provo più amore di figlio per mia mamma, da tempo ormai, da troppo tempo ormai. E questo è un dato di fatto e, anche se mi dispiace e mi disturba dirlo, è vero. Il mio sangue lo sento freddo, sento che il cuore non riesce più a scaldarlo, a farlo pulsare nelle vene come dovrebbe, da decenni, ormai. Non provo più nemmeno il piacere di regalare una rosa, tanto mi sembra che non abbia più un senso neppure questo. E l'amaro del cioccolato fondente, resta per me il miglior sapore che possa provare nell'accettare il fatto che sia l'amaro più dolce che c'è.
La vasta gamma dei colori autunnali, i più belli, perché i più maturi, i più decisi, i più forti in tutto, hanno però il sapore della morte. I colori dell'autunno si stanno consumando tutti e virano verso quel colore indefinito che è e che sa di marcio, che puzza come un cadavere in liquefazione. La vita ormai ha molto poco senso per me se penso alla vita come opportunità di relazioni che siano altro al mio essere tutto e solo fatto di me stesso. La vita ha molto poco senso ormai, anche perché quando si arriva ad offrire il piacere in ginocchio, vuol dire che non ti è rimasto altro da offrire che un amore platonico, un amore che a 64 anni non serve più a niente e non interessa più a nessuno. Quindi il piacere fisico, il piacere sessuale, diventa allo stesso tempo piacere effimero – da cogliere al volo finché si può - e sacrificio morale, perché perdi la tua dignità: e questo sta diventando sempre più insopportabile da accettare. Questo vivere per questo modo di vivere è immorale, anche se ti fa sentire ancora vivo e, a tratti, ancora spendibile e apprezzato sul mercato del bestiame. Vivo con la consapevolezza di non vivere abbastanza e pienamente come vorrei vivere. Vivo rinunciando a vivere del tanto di cui si nutrono di vita gli altri, tanto mi spaventa l'oggi che non mi fa vedere serenamente il domani. La mia felicità si manifesta solo per mezzo della mia arte, ma quando vado a letto la sera, la mia arte non dona il calore di un corpo fresco e caldo che mi sazia e scalda, e il mio liquido è privo di vita, tanto è trasparente pure lui, ormai. Mi sento perso, mi sento isolato da tutti e da tutto, ma con la consapevolezza di non desiderare di meglio; almeno finché quel meglio non si manifesti come si deve e si presenti come ci si presentava una volta. Il gusto delle cose amare resta il mio preferito, tanto l'ho studiato, capito, e convintamente apprezzato. Sembra che io sia nato ed esista solo per affrontare continuamente nuove sfide, nuovi problemi, continue difficoltà.
Mai e poi mai avrei pensato di dovermi occupare di mia madre dopo 45 anni, è una cosa di cui non mi capacito, e ancora faccio fatica a capire e accettare; forse che non voglio accettare. Non avevo mai fatto questi calcoli, vale a dire che non avevo mai pensato, nemmeno per un momento, che alla fine di questa storia tutto sarebbe ritornato al punto in cui la storia era iniziata. Un viaggio di andata e ritorno da Verona a Portoferraio e poi, da Portoferraio a Verona. Più ci penso e più tutto questo ha dell'assurdo. La vita stessa è assurda. Tutto fa parte di un meccanismo, di un gioco – sconosciuto a magico allo stesso tempo, se proprio vogliamo trovare dei riferimenti mai chiariti -, ancor più che di un progetto, in base al quale ogni cosa/azione che si fa, il tempo ce la restituisce, a volte, aumentata di interessi, non sempre legittimamente maturati. Non chiedetemi perché mi sono intromesso nella vita infernale che stava facendo Enrica dopo la morte del marito, ma vi assicuro che stava passando le pene dell'inferno; e io, sotto sotto, questo lo sapevo. Sono partito solo per assistere ad un funerale, per me il funerale del secolo che tanto aspettavo, ma poi, una volta entrato dentro il dramma, non sono riuscito a voltarmi dall'altra parte, ho indossato i miei panni, quel figlio naturale, e ho iniziato a recitare la mia parte. Col senno di poi, la mia parte era già stata scritta, era già nel copione. Quello che devo ancora capire, malgrado le mie continue ricerche, è che non ho ancora capito chi sia a tenere in mano e a gestire quel copione. O forse l'ho capito, ma non lo voglio ammettere, perché ammetterlo mi farebbe paura, mi porrebbe dinnanzi nuove sfide, nuove ricerche, e io inizio ad essere stanco. All'inizio ero ingenuamente fiducioso che tutto si potesse svolgere in modo pacifico – me la dovevo vedere col figlio di lui, Alessandro - e, se non in modo del tutto ottimale, almeno vantaggioso per Enrica, ma poi ho capito che le cose stavano prendendo una strada che non era stata indicata a mia mamma, perché era una strada maledettamente sterrata, diabolicamente calcolata e costruita appositamente per fare inciampare, per ogni metro percorso, la stessa Enrica. Ad un certo punto mi sono sentito investito di qualcosa di misterioso, quasi divino oserei dire, che mi spingeva a fare la mia parte e, alla fine, sono stato obbligato ad intervenire; ne andava della sopravvivenza di mia mamma, e del mio onore/ruolo di figlio. Ora, a distanza di un anno e mezzo, sento il peso di questa scelta, il peso è di fare tutto senza provare più niente. Mi sento più come un missionario, che come un normale figlio, ma, consapevole di questo, mi dico che va bene lo stesso così, perché questo è stato meglio del peggio che sarebbe potuto accadere a mia mamma se fosse andata a vivere a Firenze, dritta in bocca a quel gatto e a quella volpe, moglie di quel gatto. Io faccio sempre prevalere l'istinto sulla ragione, anche se spesso mi domando quale sia la ragione, dove sia e chi possieda la vera ragione, perché so bene che la mia ragione non è la vera – nel senso di unica per tutti – ragione, ma resta pur sempre quella che è giusta per me. Il dubbio mi attanaglia sempre, altrimenti non sarei qui a farlo presente; anche perché, la ragione che riteniamo giusta per noi, spesso è quella che ci fa più comodo. La vita di mia mamma, dopo 45 anni, non mi apparteneva più, ero cresciuto senza di lei, e lei era invecchiata senza suo figlio; niente era più “nostro” ormai, se non i ricordi di una infanzia, tra l'altro, nemmeno tutta quella è stata consumata insieme. Da piccolo amavo immensamente mia mamma, la cercavo, pensavo sempre a lei, e quando ero in collegio o in colonia non facevo che aspettarla, anche se a volte lei non arrivava, ma io fino all'ultimo la aspettavo, come un figlio piccolo può aspettare sua mamma. L'amore che ci univa era forte, il desiderio che ci portava entrambi a desiderare di poter vivere insieme, era grande, ma è proprio questo il punto di partenza da cui è nata la catastrofe. Quando si è presentato il momento opportuno per iniziare una vita normale insieme, era il 1975, e nessuno di noi due si è fatto trovare pronto. Eravamo entrambi già troppo adulti, troppo formati ormai, per fare io il figlio piccolo e lei la madre premurosa ed educatrice – genitore -. Enrica non avrebbe mai potuto fare/essere una madre educatrice, non ne conosceva il ruolo, nessuno glielo aveva insegnato, non i suoi genitori, e nemmeno le famiglie in cui aveva lavorato come domestica. Enrica aveva imparato le belle maniere, si sapeva comportare, sapeva cucinare bene, servire a tavola secondo le buone regole, era diventata una donna a modo, ed era sempre, inoltre, una bellissima donna. Insomma, nel momento in cui si prospettava la possibilità di vivere insieme, di conoscerci, di capirci, di iniziare, in quel momento arriva lui, e trasforma il nostro punto di partenza nel nostro punto di arrivo, ne determina la fine.
E' questo tragico epilogo che mi fa ancora male, perché non lo capisco, o meglio, adesso, ora, solo ora inizio a capirlo. Bastava portare ancora un poco di pazienza, bastava tenere duro ancora pochi anni, forse ne bastavano due o tre, e forse ce l'avremmo fatta. Comunque, è stato il senso del dovere verso una povera donna ormai anziana, sopra ogni altra cosa, che sapevo essere anche mia madre, a spingermi a fare quello che ho fatto. Una volta fatto questo passo, una volta portata via Enrica da quell'inferno, mi sono reso conto, dopo, che il sacrifico a cui stavo andando incontro era pari al fardello paragonabile a quello di una via crucis, verso la quale via, inconsciamente, mi sono avviato senza rendermi conto del prezzo che avrei pagato. Rifare tutto di nuovo, ricominciare tutto di nuovo, ripartire nuovamente là dove Enrica aveva deciso di smettere, credetemi, per me è stato, e ancora lo è, come portare una vera croce. E per dirla tutta, non mi ero preparato per niente. Ho affrontato questo esame, improvvisando tutto, ma forte e determinato di poter disporre di quello – che non è poco - che già sapevo. Forse il destino e poi la vita hanno deciso per me, e sapete perché, perché hanno capito che Mauro, finalmente, a 63 anni nel 2021, poteva dirsi pronto per portare una croce simile. Più presumibilmente me l'hanno messo in quel posto, il destino e la Vita, se posso osare una metafora che meglio di questa non ce n'è. La consapevolezza di portare un fardello simile – la mia croce – ha sempre fatto parte del mio esserne consapevole, fin da piccolo, fin da sempre. L'insegnamento cattolico degli anni '60, sia in casa dei nonni e ancor più in un collegio di suore, mi ha condizionato, turbato e manipolato fin da piccolo. Sarà per questo che, fatta l'indigestione di stupidaggini senza un senso logico – la fede è materia che si studia quando si è grandi e non si insegna alle elementari -, passato in seguito anche dal Seminario, al Liceo avrei sputato in faccia a qualsiasi cosa o persona mi avesse ricondotto o nominato Dio: poco importa quale Dio. Se devo dirla tutta, ancora oggi, sono sempre gli Dei dell'Olimpo ad affascinarmi molto di più - peraltro senza avere alle spalle i poteri forti e la finanza: i denari - del Dio di Adamo, di Eva e di un Serpente. Tutto questo si può riassumere come il fardello di una croce che percepisco essermi stata destinata dal momento stesso in cui la povera Enrica è rimasta intrappolata nella rete di quel ragazzo solo voglioso di divertimento, il primo che aveva capito che con Enrichetta si poteva osare spingendosi fino in fondo. Lo stesso ragazzo che dopo il – suo - divertimento è andato a piangere da mamma e da papà, i quali hanno fatto quadrato intorno al figlio e proposto a Enrichetta il vil denaro per l'aborto. Se questa non è stata la mia prima vera croce che mi è stata messa sulle spalle, ditemi voi come dovrei chiamarla questa “esperienza.” All'epoca, non sono di certo stato io a chiedere di portare quella croce; fosse stato per me, avrei aspettato ancora un poco prima di aprirmi alla vita. In seguito, crescendo, sono stato costretto a pregare anche il diavolo, pur di accaparrarmi una qualunque benedizione. Ho però avuto in seguito la sensazione di aver esagerato nel pregare chicchessia, perché sono convinto – il vissuto lo testimonia – di essere stato da tutti ascoltato, e preso seriamente in parola. Ora sono convinto che non è necessario avere un credo, una fede, ho l'impressione che basti avere l'umiltà o l'intelligente sfrontatezza di chiedere aiuto, sempre convintamente e con sincerità d'animo, per essere prima ascoltati e poi, quando “Loro” vorranno, essere accontentati. Non sempre l'essere accontentati è positivo, perché nel mezzo ci possono stare anche tante spine, ma funziona così. Tu preghi sinceramente, convintamente, e prima o poi sarai accontentato, accettando di prendere tutto quello che viene: meglio prendere tutto finché si può. E quello che non ci sta bene, che non ci piace, non si può restituire o rifiutare come se niente fosse, o meglio, è possibile, ma richiede un impegno molto maggiore di quello profuso per aver chiesto. Rifiutare, restituire, richiede più tempo e altrettanta sincera convinzione; intanto il tempo passa, inesorabile e puntuale, lui passa...
Il 2021 è stato un anno davvero particolare, un anno in cui tanto di quello che avevo chiesto, o semplicemente molto desiderato, si è avverato. Visto e considerato che sono stato parecchio accontentato, fin troppo direi, sono giunto a una conclusione: quando ci si rivolge seriamente e convintamente “alla Vita” chiedendo qualcosa che desideriamo con tutto noi stessi, stiamo attenti a non scherzare troppo, perché “la Vita”, nella maggior parte dei casi, è propensa ad aiutarci, a venirci incontro. Quindi, mai esagerare, mai chiedere “alla Vita” più di quanto non siamo in grado di gestire e sopportare. Questa riflessione non è retorica, non sono concetti buttati lì tanto per sembrare “fighi” o per voler insegnare qualcosa di “figo” agli altri, no! Questo è quello che succede quando un animo puro, rendendosi conto di non farcela da solo, implora sinceramente e convintamente aiuto.
Ecco perché non si deve giocare col fuoco. La vita è come un Dio – la Vita è Dio -, puoi non credere in Lui, in quel Dio, ci sta, ma mai prenderti beffa della Vita, perché quel Dio/Vita c'è, ti ascolta, ti accompagna e, se lo ritiene, se tu lo vuoi con tutto te stesso, se te lo meriti, quel Dio, prima o poi, arriva. Io però, a dirla tutta, in passato, pur di arrivare alla mia meta, pur di arrivare al successo e alla fama – non è sempre peccato, e tutto deve ancora arrivare per come l'ho chiesto – nell'arte, ho deciso di fare un patto con Dio, quello cattivo ben inteso, e che solitamente chiamiamo Diavolo – Dia, Dea femm. + volo, volare - per semplificare, e credo di essere stato preso in parola. Quando si dice: “Fare un patto col Diavolo”, ecco, questo è un gioco pericoloso, perché si corre il rischio di essere accontentati. Sempre in senso metaforico, ma mai solo e totalmente, l'insegnamento ricevuto da piccolo, da molto piccolo, sia dalla frequentazione imposta e forzata della Chiesa e dall'obbligo di ferma in collegio, mi ha fatto capire in fretta che là dove si parla di peccato, là regna il piacere, e il piacere non è solo lussuria, ma anche formazione essenziale per una crescita psicologicamente sana ed equilibrata. Come per una dieta sana ed equilibrata si deve mangiare un po' di tutto, a volte cose schifose, così è per la vita, che va assaggiata e provata tutta, senza scartare nulla e senza tanto fare gli schizzinosi in presenza di altri, quando poi da soli ci si abbuffa di tutto. Casa, chiesa e collegio, hanno formato e fatto maturare in me i primi piaceri, i primi desideri, compresi quelli affettivi e sessuali, ma anche le prime paure: il terrore delle punizioni corporali, per non parlare dei lavaggi automatici del cervello di stampo religioso-inquisitorio. Per tutto questo, e malgrado tutto, rifarei tutto da capo, imparando però a non fare troppo lo schizzinoso come nella realtà ho fatto. Perché rifarei di nuovo tutto? Perché in questo modo, vedendo e sentendo di tutto, avendo provato di tutto, dentro a questo tutto io mi sono formato e sono cresciuto, mi sono ritrovato e mi sono sentito protetto anche. Certo è che potendo rifare e rivivere di nuovo queste esperienze, cercherei di viverle di più e meglio, visto e considerato come le ho vissute io, sotto questo aspetto, cercherei di lasciarmi andare decisamente di più, di pensare meno e di consumare di tutto e di più. Lo dico, ma, se il carattere rimesse lo stesso, rifarei tutto uguale. Il senso del dovere che mi è stato inculcato con metodi di stampo maniaco-monacale e militare insieme, l'essermi fatto/cresciuto da solo – o impari a nuotare o affoghi -, mi hanno insegnato che fare il proprio dovere e “avere cura” della propria dignità, sono beni non commerciabili e irrinunciabili anche quando ci si trova al mercato del bestiame con i piedi e le ginocchia letteralmente immersi nella merda. Così funzionava “il senso del dovere” in collegio, quando facevo le elementari a Villa Santa Maria, quando ti volevi togliere un piacere – allora considerato un privilegio - di succhiare un bastoncino di liquirizia inserita e girata su e giù dentro un limone. Questa era la ricompensa che ci aspettava in questo collegio di suore, dette “della carità” - forse le meno peggio sulla piazza di allora – quando ci si prestava ad aiutare le suore anziane in cucina nel portare su dalla cantina le cassette di patate o altro che ci chiedevano di fare. Negli anni sessanta, in questi casi per fortuna, il politicamente corretto non aveva ancora annebbiato la vista di chi la disciplina la insegnava come io la insegnerei ancora oggi. Se penso al piacere che si provava nel succhiare quel bastoncino nero, dal sapore esotico, girato e rigirato dentro un limone, mi viene da sorridere con tenerezza, e darmi un bacio sulla guancia per questo. I tempi erano quelli della prima guerra fredda, erano quelli in cui la sera, davanti alla statua della madonna che si trovava dentro una grotta nel giardino di fronte, si pregava la madonna affinché non arrivassero i comunisti ad invadere il nostro paese. In quegli anni, con quel clima politico e sociale fatto di terrore e di contrapposizioni ideologiche vere – entrambe vere e legittimate dalla storia -, quando mi succhiavo la liquirizia bagnata di limone, io ero felice, amaramente felice. Perché amaramente felice? Perché ero pur sempre consapevole di essere un bambino non normale, nel senso di non uguale agli altri. Ero già consapevole di essere diverso, di essere strano, di essere speciale. Per questo ero anche consapevole di portare sulle spalle, fin dalle elementari, o forse già dall'asilo fatto a Grole, la mia croce, una croce fatta su misura per me; per quel piccolo e bellissimo bambino coi boccoli dorati che si chiamava Mauro. Quasi me lo sentivo che dentro questa croce, già allora me lo sentivo, che dentro questa croce ci stava scritto il mio futuro e, nel mio futuro, oggi il mio passato, ci sono stati sia una vita segnata dal peso di un Dio mai trovato, e le macchie infinite, tante macchie dentro le mie mutande; le macchie di tanti amori desiderati e di sudori mai consumati. La croce – quella della religione – mi ha fregato anche qui. La croce della Vita, invece, mi ha salvato e resa discretamente piacevole la Vita. Lasciatemi dire che, nessuno me ne voglia, considero la religione cattolica, e non solo, ma forse più di altre, o al pari di altre, ma assolutamente non di meno, così pericolosa e destabilizzatrice per una sana crescita e formazione educativa di una persona, da dover essere bandita definitivamente da ogni possibile forma di divulgazione in formato propedeutico, se non finalizzata esclusivamente al solo suo studio, alla sola sua conoscenza storica, punto!
Le religioni vanno tutte studiate e nessuna praticata seriamente; in teatro però – in quello dell'assurdo - c'è posto per tutti, e per i sani di mente, l'ingresso è gratuito. Nel teatro dell'assurdo tutto può accadere, perché niente ha un senso pur suscitando un apparente illogico senso: il senso del non senso che porta a ridere o a piangere tanto quanto.
Oggi, 29 marzo 2023, voglio concludere questo racconto facendo mia, con qualche piccola differenza che non può mai mancare, questa intensa riflessione di P. P. Pasolini: "Allo stesso tempo sono invecchiato. L'età mi ha restituito un ottimo umore. È falso che la vecchiaia sia brutta, triste e venata di angoscia. Man mano che le distanze si accorciano, la vita diventa sempre più gioiosa per me."
Ecco, per quanto mi riguarda, invecchiando, la mia vita non si è fatta più gioiosa, ma più serena sì. Credo che questa serenità che sento maturare dentro di me man mano che sto invecchiando, sia la consapevolezza di aver raggiunto traguardi miei personali, sia in termini di presa di coscienza delle mie capacità - potenzialità caratteriali, psichiche e manuali - di sapermi muovere a 360°. Sia in termini di soddisfazioni per il mio lavoro artistico che, pur non essendo arrivato ancora là dove io voglio vedermi arrivato, mi dona una forte carica di entusiasmo interiore che spinge sempre più in alto la mia autostima.
Quindi, poter invecchiare bene, è bello! Certo è, caro Pier Paolo, che il privilegio di poter invecchiare, al di là della fine che faremo – ho sempre ipotizzato la mia non molto diversa dalla tua -, sta nella consapevolezza di essere coscienziosamente e serenamente consapevoli, appunto, di invecchiare vedendo in questo uno stato – l'essere - fondamentale per il coronamento di una vita che si sta per concludere; mai fonte di baratto, per nessuna ragione al mondo.
Di questa splendida e serena certezza non si ha consapevolezza fintanto che vecchi non si diventa.
Lunedì di Pasqua ho chiesto a mia mamma, dopo un anno e mezzo circa, se si sente di dire con tutta onestà, se è più contenta di essere venuta su da me/noi, da suo figlio e dai suoi parenti, pur abitando da sola e passando da sola gran parte del suo tempo, oppure se avesse preferito immaginarsi a Firenze nelle mani di Sandro e di sua moglie Susy. La risposta è stata secca, decisa, talmente secca e perentoria da non lasciare dubbi sulla sua veridicità: “Assolutamente più contenta di essere qui vicino a mio figlio, al cento per cento.”
Io registro tutto, poi, il Tempo, sempre e solo il Tempo – è lui che comanda, non io, non noi/voi – saprà esprimersi meglio di quanto non abbia saputo fare io qui, adesso. Solo allora – non adesso - potrò capire quello che ancora oggi non capisco, o non mi è chiaro del tutto.