Concetto Temporale 22/7


Raccontato dall'autore

Madre: Ecco tuo figlio
Figlio: Ecco tua madre
Questo il senso della foto che accompagna questo lavoro, e che avevo anticipato raccontando del lavoro precedente. All'interno di questa foto c'è tutto, e per questo non ci sarebbe altro da dire, parla da sé. Ma io non mi sottraggo mai dal raccontare tutto nei minimi particolari, perché da “spulciare” tra le mille pieghe di questa foto ce n'è parecchio. In pratica è vero, dentro questa foto c'è davvero tutto: c'è il completamento di un percorso iniziato ormai un anno fa. A dicembre del 2021 mia mamma veniva via – è stata da me letteralmente portata via – dall'isola d'Elba, e sistemata vicino a Verona. Per 45 anni mia mamma ha vissuto (suo malgrado, come dice lei, fino a un certo punto, dico io), lontano da me. Ho sofferto come un cane per questo abbandono, ma così sono andate le cose, a partire dal 1976/77. Trascurando qui ogni dettaglio, mi risulta difficile spiegare come realmente vivo adesso questa nuova “situazione”, perché non mi vengono parole migliori e più adeguate per definirla. Non provo vero amore materno, non provo vero e sincero affetto materno, ma un poco di tutto questo mescolato e confuso tra loro sì. Tra questi mezzi sentimenti, che alla fine sono sentimenti solo parzialmente sinceri, quello che prevale, per me una scoperta nuova e inaspettata, è il senso del dovere. Bello o brutto che sia da dire, ma questo è: Senso del dovere. A mia mamma cerco di non farle mancare nulla, di infonderle coraggio, forza, di aiutarla a sedimentare tutto il negativo che sta nel suo passato, per fare ogni giorno un piccolo sforzo per abituarsi a vedere il positivo che sta nel presente, non senza riappropriarsi della sua autostima e consapevolezza di esistere all'interno di questa sua nuova, ma ormai tarda, vita.
Mi sento più un maestro che un figlio. Più un consigliere, un tutore, un padre confessore, che un figlio. A volte mi chiedo se quello che faccio è giusto oppure no, ma, non avendo un punto di riferimento, non essendomi mai occupato di nessuno se non di me stesso, non so cosa rispondermi. Anzi, a dire il vero le risposte cerco di darmele, sempre con onestà, ci mancherebbe, ma quasi sempre mi convinco che tra una sgomitata e un abbraccio, una carezza, il metodo dell'insegnante, tra tutti quelli possibili, è quello che mi viene meglio.
A volte esagero e la faccio innervosire, tanto le prende l'agitazione da non riuscire a fare il compito a casa, ma nessun maestro, come è giusto che sia, si fa intimorire e scoraggiare, ma persegue nel suo metodo e programma; anche se non è quello ministeriale.

Visto il tutto da fuori, rischio di apparire cattivo, brutale perfino, per voler forzare la mano su una sorta di riabilitazione prima di tutto di carattere psicologico e solo dopo, affettiva. A dirla tutta, con sincerità, mi rendo conto che questo è il mio punto di vista, e che il punto di vista di altri e di mia mamma, potrebbe voler vedere ribaltato l'ordine delle cose, per il quale prima di tutto viene il bene affettivo e poi tutto il resto. Capisco, e condivido se mi trovassi in mezzo ad una situazione definita dai più “normale”, ma non possedendo esperienza in tal senso, mi comporto per come mi viene spontaneamente “normale” fare. In pratica mi comporto in base a come sono stato cresciuto, quindi sempre per esperienza maturata, non per ripicca o vendetta, non sia mai, non ne sarei capace. Da piccolo ho sempre avuto tutto quello che volevo, tranne la presenza di mia mamma, della cui assenza non ha tutte le colpe; per questo, ora, mi sembra di comportarmi in maniera del tutto normale; una normalità tutta mia, tutta nostra e solo nostra. Sono convinto, comunque, che, e lo dico metaforicamente, il concetto di usare la carota e il bastone – con questi sono cresciuto io – sia ancora oggi, per ogni situazione, più o meno, la regola migliore da applicare in ogni situazione e per ogni genere di rapporto, parentale e non.
 

Naturalmente così

Si concepisce dopo un botto

Seguito da urla e gemiti grotteschi

Per istinto e per natura la madre allatta

Per istinto e per natura il padre fa il suo

Poi il figlio cresce e cammina

La madre e il padre sono stanchi

Al padre e alla madre manca l'aria

Il figlio non fatica e sta bene così

Troppi i vantaggi e nessuna responsabilità

I genitori, con fare tutto naturale

Impediscono al figlio di rimanere vittima

Di un pantalone e di una sottana

Al figlio non si nega nulla finché arriva il diploma

E senza tanto cincischiare

Al figlio si parla chiaro: Da domani ti devi arrangiare!

Solo così il padre e la madre

Tornano a essere un maschio e una femmina

Se vogliono, un padre e una madre

Liberi di scoppiare i botti con altri

Liberi di fare scelte diverse

Liberi di non porsi domande

Il figlio ha già iniziato a fare praticantato

Che sia chiaro: A modo suo!

Padre, madre, e figlio, naturalmente così.

Scritta pensando ancora una volta – è una vera ossessione – alla vita fatta e alla vita non fatta con mia mamma. Scritta pensando a quanto io sia il prodotto di una vita vissuta e non vissuta secondo regole definite impropriamente naturali nell'ambito di una improbabile “vera famiglia naturale”, considerata normale. Di normale nella mia vita non c'è niente, non c'è mai stato niente, nemmeno la vita e le scelte fatte da mia madre sono state normali, ma questo è, questo sono e questi siamo. Mia mamma e io siamo così, diversamente madre e diversamente figlio; diversamente madre e donna e diversamente uomo e figlio.
Devo peraltro dire, con tutta onestà, che scrivendo questa “cosa” sulla famiglia, che mi vede protagonista dietro le quinte, ho pensato fortemente alla poesia di J. Prevert dal titolo “Familiale”. Una poesia che mi è entrata dentro fin da subito, quando negli anni '70, al tempo del Liceo, frequentavo i corsi serali di lingua francese; quando Prevert teneva ancora la penna in mano. Trovo che “Familiale” sia una poesia forte, dirompente, e allo stesso tempo molto intima e triste. Una sorta di “dolce pugno” nello stomaco. La mia, invece, che non è degna di starle nemmeno seduta dietro, vuole sdoganare però la definizione di “naturale” e “normale” che ancora oggi, stupidamente, perché del tutto inutilmente, diamo e intendiamo quando si parla di Famiglia.
 

HO VOLUTO LA MIA SOLITUDINE

di Pier Paolo Pasolini

«Ho voluto la mia solitudine
sono senza amore, mentre, barbaro
o miseramente borghese, il mondo è pieno,
pieno d’amore…
e sono qui solo come un animale
senza nome: da nulla consacrato,
non appartenente a nessuno,
libero di una libertà che mi ha massacrato».
 

La cosa giusta da fare

Non hai bisogno di caffè: Hai bisogno di dormire
Non hai bisogno di nicotina: Devi camminare
Non hai bisogno di alcol: Hai bisogno di ridere a crepapelle
Non hai bisogno di sesso: Hai bisogno di connessione
Non hai bisogno di stupefacenti: Hai bisogno di pensare
Non hai bisogno di stimolanti: Hai bisogno che ti abbracci.
Non hai bisogno di allucinogeni: Hai bisogno di arte
Non hai bisogno della televisione: Hai bisogno di poesia
Non hai bisogno di relazioni amorose: Hai bisogno di amore
 

Io parlo per me

Prima ho bisogno di me: Dopo chiederò di te
E se dopo sarà troppo tardi?
La pace sia con te: Sempre dopo di me.

Abbiamo bisogno di pace interiore, il che richiede armonia tra l'interno e l'esterno.
Facciamo quello in cui crediamo, e crediamo in quello che facciamo; ma ecco che si avvicina il traguardo, mi guardo intorno e vedo che non c'è più nessuno, sono rimasto da solo, solo con quello in cui credo io.

In questo mese di gennaio sarò chiamato dal Comune di Castiglione delle Stiviere – oggi 31/01/23 non mi ha chiamato ancora nessuno - per la riesumazione del corpo di Giuseppe Pavan – sono passati già sessant'anni -, e per la sua ricollocazione in un piccolo loculo che gli garantirà pace e serenità per altri trentacinque.
A me il compito di organizzare tutto, condividendo con mia mamma ogni singola cosa, compresa la frase che ho voluto fosse incisa sulla lapide. Niente date di nascita e di morte, ma solo un pensiero mio che vuole sottolineare l'importanza di ricordare – pensiero -, ancor prima di quella di celebrare e presenziare in pompa magna nei giorni stabiliti per legge: quelli in cui tutti ti devono vedere e sapere che sei venuto, che c'eri anche tu. Questo il senso della mia scelta. Sulla destra ci sarà una foto ingrandita il più possibile, non del mezzo busto di papà Pino, ma una foto scattata a Grole di Castiglione, dove abitavamo finché “Pino” nel 1963 è morto. Davvero non posso non pensare ogni volta alla sfortuna che ha avuto quest'uomo. A volte mi domando se il suo destino era scritto, ancor prima che conoscesse mia mamma, e me. Quello che mia mamma mi racconta sempre è che Pino mi voleva un mondo di bene, e che noi tre eravamo una famiglia davvero felice: alla faccia dei parenti Pavan, alla faccia delle sorelle di Pino che, a quanto pare, non avevano preso bene la scelta del fratello di sposare una donna con un figlio. Io l'ho sempre trovato un gesto d'amore straordinario, un gesto che per la sua infinita pienezza di amore, mi ha sempre fatto vedere quello straordinario uomo come il mio vero e unico Padre. Ho volutamente lasciato lo spazio necessario sotto il nome di Pino, per inserire, quando sarà, quello di mia mamma. Lo spazio è per due, mi ha detto mesi fa l'addetto del Comune. Chissà, nella mia mente controversa e piena di dubbi, si sta facendo breccia lo stupido pensiero che, una volta ricongiunti da morti, vicini l'uno all'altra, potranno riprendere a vivere. Lo so, è una stupidaggine, ma come sempre accade in questi casi, quando si ha a che fare direttamente con la morte, beh, allora tutto prende una piega che non è proprio quella che avresti voluto prendesse. Non so, a me sembra tutto molto chiaro, ma poi, in questi casi, “in un istante” la mente si annebbia, tutto si confonde, ma per fortuna non era tutta la mente a confondersi, ma solo una parte di essa: quella più grezza. Per quanto riguarda mia mamma sono sereno, è stata lei a dirmi che dopo la sua morte posso fare di lei quello che ritengo più giusto; libertà di movimento, e io, per ora, ho deciso così.


                      Giuseppe Pavan

FOTO                  “E' nel ricordo di chi resta
                                che si perpetua la vita dei defunti”
                               R.I.P. Papà             Mauro Pavan
 

 

In un istante

Quanto è importante un istante?...

In un istante tutto diventa chiaro, o buio, ma si capisce.

In un istante si apre un mondo, o si chiude un sepolcro.

Basta un istante per capire tutto: ma niente, è la luce.

La libertà è la luce dell'anima, che sposa la mente.

In un istante arrivano le risposte, si illuminano gli occhi,

E appare un sorriso nel bel mezzo di un niente.

Basta un istante e scoppia il cuore, non sempre di gioia.

Basta un istante per dire: Grazie, sono felice così!

Questa poesia l'ho scritta dopo che nel corso degli ultimi anni, e ci tengo e sottolineare “gli ultimi”, ho capito – sì, ho capito, perché per capire non è mai troppo tardi – che se mi rilasso, se mi impongo di non farmi attraversare - trafiggere -, di non rovinarmi il presente, devo rimandare a dopo/domani le decisioni che riguardano il futuro prossimo, e che sarebbe deleterio se le trasformassi in una inquietudine costante del presente. Col tempo – che il tempo sia galantuomo è cosa verissima – ho imparato che basta un attimo per far sì che certe risposte che servono arrivino da sole quando mai te lo aspetti. In un attimo si accende dentro di te una luce, e quella luce ti rivela la cosa giusta da fare, la parola giusta da dire, o ti suggerisce di tacere.

Se potessi vorrei scrivere come solo lui sapeva raccontare con la poesia, come Pier Paolo. E noto che, a differenza di Pier, la mia coscienza è sotto pressione e, unitamente al mio ruolo di figlio, quando penso a mia mamma, vado in confusione.
 

Supplica a mia madre

di Pier Paolo Pasolini
 

È difficile dire con parole di figlio
ciò a cui nel cuore ben poco assomiglio.

Tu sei la sola al mondo che sa, del mio cuore,
ciò che è stato sempre, prima d’ogni altro amore.

Per questo devo dirti ciò ch’è orrendo conoscere:
è dentro la tua grazia che nasce la mia angoscia.

Sei insostituibile. Per questo è dannata
alla solitudine la vita che mi hai data.

E non voglio esser solo. Ho un’infinita fame
d’amore, dell’amore di corpi senza anima.

Perché l’anima è in te, sei tu, ma tu
sei mia madre e il tuo amore è la mia schiavitù:

ho passato l’infanzia schiavo di questo senso
alto, irrimediabile, di un impegno immenso.

Era l’unico modo per sentire la vita,
l’unica tinta, l’unica forma: ora è finita.

Sopravviviamo: ed è la confusione
di una vita rinata fuori dalla ragione.

Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…

 

Quanto di più e di meglio avrei potuto fare nella vita se il bisogno di mangiare non avesse prevalso sul bisogno di pensare? Questo mi chiedo sempre più spesso, ma ho imparato a gestire questo tormento con la ragione, accettando quello che il destino mi ha, pur sempre, regalato. L'importante è di sentirsi a posto con la propria coscienza, per non arrivare sul punto di morte con il rimpianto di non aver fatto quello che si desiderava fare, pur potendolo fare. Avrei potuto fare di più, lo so, ma pazienza, sono comunque riuscito a fare gran parte di quello che sognavo di fare, e questo non è poco. Sentirmi soddisfatto, almeno in parte, perché questo è, non è poi cosa da sottovalutare.
Sento di essere arrivato vicino alla meta, e questo mi riempie di gioia, ma sento anche che vorrei fare ancora molto molto di più, e per questo, speriamo che il destino mi tengo sotto osservazione e mi voglia accontentare. Ti prego, oh destin pescatore, non tirare su la lenza oggi, lasciami vivere ancora, lasciami sfogare ancora, ti prego, oh destin pescatore, lasciami ancora la possibilità di lavorare. Quando vedrai che sarò stanco – “e da solo” lo tralascio ormai dandolo per scontato – e la mente non mi starà più ad ascoltare, allora ti prego, tira su forte e, in un colpo solo, fammi amorevolmente tuo.
 

Concetto Temporale 22/7

Non è vero che, quando si è vecchi, non serve più a niente tutto quello che si è imparato durante la vita, basta restituirlo gratuitamente a chi, di solito più giovane, dimostra con intelligente furbizia di meritarlo e di volerlo fare proprio – conoscere -. Ancora ce ne sono di questi giovani, pochi, ma ce ne sono. In questo modo il vecchio si rinnova, si rigenera, e diventa contemporaneo; perché diventa altro. Ecco cos'è diventato per Mauro Pavan un centrino di cotone, comprato nella piazza di Santa Maria Novella a Firenze, e creato a mano da mamma Enrichetta tanti anni fa. Il resto è “solo” un lampo di creativa lucidità, un gioco di abilità artistica e puro divertimento.
 

Classico e contemporaneo insieme: “In Mauro Pavan tradizione e innovazione possono coesistere”.

Cit. Vittorio Sgarbi

Sentirsi un uomo/pittore “classico”, vuol dire sentire dentro di sé il gusto e le emozioni “vere” che si provavano al tempo di Pericle, di Alessandro, o di Cesare, ma allo stesso modo rivendicare, convintamente, l'appartenenza a ciò che siamo oggi. Uomini di oggi sì, ma con il piacere di sentirsi dentro il ribollire di quel senso di libertà primordiale tipica del mondo classico precristiano. Forse ho sbagliato a prendere come esempio tre figure che appartengono al mondo militare e della politica, meglio avrei fatto se avessi preso come esempio Socrate, Fidia, Lisippo, Virgilio o Seneca, ma c'è qualcosa dentro di me, che attira il mio istinto di uomo che ama le regole e la disciplina, e per questo, forse, mi sono fatto prendere più dalla gloria e dalla fame di conquista – sto dando una mano agli psicologi, ai critici, ai soloni del “so tutto mi” -, che da una reale e consapevole introspettiva serenità interiore, tipica del bisogno di creare e che è propria delle arti più nobili.
Quando penso al concetto di “classico”, la prima cosa che mi viene in mente è la nudità, la libertà di esibire il corpo e fare del corpo e dei suoi attributi il perno intorno al quale ruota tutto il bello visibile e fruibile.
Partendo da questo punto di vista, mio personale, per me centrale, pensare al corpo nudo e libero non significa avere una visione di esso come solo di qualcosa – puro oggetto - di cui beneficiare stupidamente per fini erotici, sessuali, assolutamente no; non è questo che intendo. Significa soprattutto godere di quella sensibilità primordiale, genuina, naturale, spirituale perfino, nel provare un piacere sano e innocente, perché puro, beneficiando “semplicemente” della sua straordinaria bellezza estetico-compositiva. In questo pensiero, la molla primaria che fa scattare l'ammirazione per raggiungere il massimo del desiderio emotivo, puramente estetico, appunto, risiede nel viso; e gli occhi – sguardo – fanno da catalizzatore – ponte - tra lui e il mio cervello. Uno sguardo ti penetra il cervello come un dardo ti penetra il cuore.
 

Il tipico veronese imbecille: Domenica 11/12/22

Al rientro dal mio soggiorno a Napoli, città adorabilissima – non può essere considerata diversamente -, alla stazione ferroviaria di Verona, dopo essere salito sul taxi, parlando del più e del meno come si usa fare quando si sta bene e si è propensi al dialogo, succede l'incidente diplomatico di cui si farebbe sempre volentieri a meno:
Tassista veronese: Ma non ti sei annoiato una settimana intera a Napoli?
Risposta: No, mi sarei invece annoiato a passare una settimana intera a Verona, casomai.
Tassista: Muto, silenzio di tomba fino all'arrivo.

E che cazzo: Ma finitela veronesi borghesucci mediocri, sempre ubriachi di stupide fantasie frutto di pregiudizi altrettanto stupidi che fanno vomitare solo a sentirli. Basta veronesi ignoranti pieni di spocchia e vuoti di cervello. Basta, fate schifo! Quando aprite la bocca piena di sonante liquidità e dall'alito che sa di merda sempre fresca, mi fate vergognare di essere anch'io un veronese. Mi rincuora il desiderio, a Giove piacendo, di morire altrove.
A Napoli, in questo secondo soggiorno, ho toccato il cielo. Poche cose, ma cose di vitale importanza, irripetibili forse, per dire con vanto genuino che ho vissuto momenti indimenticabili, unici. Martedì 6 dicembre Sono stato al San Carlo, per l'ultima rappresentazione del Don Carlo. Ho comprato il gioiello a Via Toledo che sta su questo quadro. Ho scoperto, grazie all'amico Gennaro di Palazzo Venezia, un posticino in zona Pignasecca, dove mangiare dei primi napoletani a poco prezzo e davvero speciali. Ho vissuto con l'amico Gennaro momenti di gioia pura, di pura tranquillità e serenità – armonia -. Gennaro mi ha lavato tutte le maglie che avevo inzuppato di sudore, per una influenza smaltita in quei giorni a Napoli. Con Gennaro e alcuni amici suoi, domenica 11 dicembre, il giorno del mio rientro, ho mangiato pasta e patate, avanzata la sera prima e preparata in occasione della rievocazione in costume della Tombolata Napoletana Storica del 1734 a Spaccanapoli, organizzata sempre a Palazzo Venezia dal mitico e adorabile Gennaro. Mi sono ritrovato così, nel giro di pochi minuti e senza volerlo, a rivivere un momento di euforia e di gioia sincera e libera da tutto, purificata da tutto, quella della scena del pranzo sulla terrazza d'estate nel quartiere Ostiense a Roma, tratta dal film “Le fate ignoranti”. Io ero al settimo cielo, sempre un po' legato, impacciato, da stupido nordico, ma felice dentro come solo a Roma, a Palermo e a Napoli, mi sono sentito. Grazie Napoli, e grazie Gennaro.
 

Gli “espedienti” di Mauro Pavan:

Cit. Vittorio Sgarbi

Una cosa però, in aggiunta a quanto già detto sopra, la vorrei dire. Si tratta pur sempre di raccontare non solo della mia vita, che sempre di un tutt'uno con la mia arte e del mio carattere si tratta, ma di soffermarmi quel tanto che, lo spero vivamente, dovrebbe bastare per spiegare come un gioiello comprato a Napoli è entrato a far parte di questo lavoro. A dirla tutta, l'idea era maturata ancora a Verona, quando, a metà novembre 2022, finito il lavoro, iniziavo a vederci dentro/sopra qualcosa che brillasse, un qualcosa che assomigliasse a uno o più punti luce dati dall'effetto, giusto per spiegarmi meglio, di alcuni piccoli brillantini. Ovviamente, non potendo permettermi i brillantini e non trovando altro di simile con una base piatta sotto, avevo lasciato perdere l'idea e questo lavoro sarebbe stato finito così, come i precedenti, senza nessun tipo di “espediente” (cit. Vittorio Sgarbi all'interno di: “I Narratori Del Nostro tempo”). Questa la definizione del sostantivo “espediente”: Accorgimento utile a risolvere alla meno peggio una difficoltà o a superare una situazione imbarazzante o critica; trovata, stratagemma, scappatoia. Quindi, Mauro Pavan avrebbe "escogitato" un espediente per risolvere qualcosa, un vuoto, perché così, come sarebbe rimasto, non sarebbe andato/stato bene (?). No, non diciamo cavolate! Non è così, le cose non stanno così! Che a dirlo sia stato Vittorio Sgarbi, mi fa sorgere il dubbio, ma è un dubbio lecito, che Vittorio abbia per davvero perso molto poco del suo prezioso tempo per “studiare” i miei lavori, e che si sia messa in piedi questa recensione, lettura, video-registrazione, nell'arco di pochissimi minuti. Questo capita, senza togliere nulla al grande e stimatissimo Vittorio Sgarbi, quando si fanno tante cose concentrate in pochissimo tempo e alla stessa maniera del valore che può avere un uovo tra le migliaia di uova depositate in gabbia dalle migliaia di galline allevate in batteria. Ci sta! Mettiamola così, ci sta! La fretta è sempre una brutta consigliera, per tutti, nessuno escluso; il tempo è denaro, per carità, ci sta! Che altro potrei mai dire/aggiungere;tanto hanno sempre ragione loro.
Fatemi però spendere due parole sull'utilizzo di oggetti all'interno dei miei lavori. Ho detto all'interno perché questi oggetti, che non sono espedienti e che fanno parte del progetto, maturano via via man mano che matura l'idea stessa di questi singoli lavori. Non sono degli espedienti per “tappare” un buco, o per “mettere una pezza” da qualche parte, sono oggetti protagonisti all'interno di un progetto che li contemplava fin dall'inizio. Quando ho iniziato a lavorare a: “La Luce di Enrichetta”, lo stesso lavoro a cui si riferiva Vittorio Sgarbi quando ha usato la parola “espedienti”, i due specchi e il centrino fatto da mia mamma – centrino sempre dipinto -, erano già contemplati fin da quando ho pensato di fare questo lavoro, ancor prima che lo incominciassi. Se nel mio progetto è già previsto l'inserimento di un qualcosa che gli apparterrà intrinsecamente, questo/i oggetto/i, di qualunque cosa si tratti, non potranno mai essere definiti degli “espedienti”. Se camminando per strada, indossando un paio di pantaloni stretti, facessi una scoreggia e facendo quella scoreggia mi si aprissero i pantaloni nel bel mezzo del culo, e per tamponare questo buco gli mettessi in pezzo di nastro adesivo, sempre dall'interno – già fatto -, ebbene, questo sì che si chiamerebbe espediente, senza il virgolettato, questo sì, questo è, un espediente. I miei specchi, i miei centrini, peraltro dipinti e non applicati, non sono espedienti, sono protagonisti e sono stati scritturati fin dal principio quando in quella sceneggiatura si prevedeva di inserire quel determinato oggetto. Oggetto previsto e voluto fin da subito, oggetto pensato e progettato fin da subito, non una pezza dell'ultima ora. Spero di essere stato molto chiaro, inequivocabilmente chiaro.
Ma torniamo a noi, torniamo a questo lavoro, a “Concetto temporale 22/7”. In questo lavoro, e qui voglio essere sincero fino in fondo, a differenza dei precedenti, devo dire che sia i brillanti o pietre/cristalli simili a gioielli, non erano contemplati. L'idea di introdurre all'interno di questo lavoro dei punti luce, è nata quando il lavoro era già terminato. Un lavoro che, comunque e in ogni caso, era già finito così come lo erano i precedenti, e che poteva benissimo essere considerato tale, dopo averlo guardato più volte, ho sentito la vocina dentro. La vocina dentro – prestare sempre attenzione alla vocina - mi diceva: Qui ci potrebbe stare dentro qualcosa di leggero, qualcosa di non immediatamente visibile – in quel caso avrebbe interferito col progetto con fare prepotente -, ma che sia fonte di luce. Immaginavo di trovarmi davanti ad un enorme abito elegante, una sorta di abito da sposa, un abito, un tessuto infinito, immenso, senza spazio e senza tempo, all'interno del quale ci sarebbe stato/a bene uno o più “punti luce”. Una spilla, una collana, qualche diamante, o altro gioiello che gli desse un tocco finale ulteriore per elevare questo lavoro/tessuto a qualcosa di ancora più elegante e nobile di ogni possibile concetto esso stesso potesse già contenere. Trovandomi a Napoli il giorno 5 dicembre 2022, passeggiando per Via Toledo, sul lato destro della strada andando verso Piazza del Plebiscito, il mio sguardo si posa immediatamente sui gioielli esposti nella vetrina della Gioielleria “Leonardo Gaito, perché individuo subito un pezzo che mi ha fatto subito pensare di essermi trovato al posto giusto nel momento giusto. Entro, chiedo di quello strano gioiello, all'apparenza un po' “grezzo” - si trattava di una spilla -, spiego le mie esigenze, lo pago, e mi dicono di passare dopo 3 giorni per il ritiro. E così ho fatto, e quello strano “coso” - perché da una spilla si è trasformato in uno strano “coso” -, è diventato parte integrante di questo lavoro; non come espediente, ma come “complemento d'arredo”, se proprio lo vogliamo squalificare – perché qualcosa di negativo bisogna sempre dire quando si critica dopo una squalifica -. Io lo vedo più come un “punto finale”, come un timbro, come qualcosa che, se c'è è meglio; un completamento, magari superfluo, lo accetto, ci sta, ma di certo non un espediente. Alla fine di tutto, come quasi sempre dico, quello che conta è che piaccia a ma, che convinca me e, in questo caso, mi convince, mi piace, punto e fine della polemica.
Terminata la polemica con Vittorio, che ribadisco stimo tantissimo, aggiungo anche che un personaggio come lui, in mancanza di un vero “Papa” intellettuale come lo era P. P. Pasolini, è bene che ci sia e che resti. Voglio altresì spiegare cosa ha spinto la designer Tea – presente nel negozio al momento dell'acquisto – a creare questo gioiello. L'idea è nata pensando e riproducendo, in sintesi, la doppia ellisse – anello esterno della gradinata e anello interno dell'arena - che forma un anfiteatro, nella fattispecie, così mi ha spiegato Tea, l'anfiteatro romano di Pozzuoli.
Quando sono entrato nella gioielleria per chiedere di questo “coso” - spilla -, che già mi piaceva di suo vista da fuori, ascoltando questa spiegazione me ne sono innamorato ancora di più, e ancora più convintamente, l'ho voluto all'interno di questo lavoro.
Lo vogliamo chiamare “espediente”?...
Vabbè, di parlare a vanvera capita a tutti, a maggior ragione quando non ci si è preparati sufficientemente prima dell'interrogazione.
Ci sentiamo alla prossima, oggi 01/02/2023, che ancora il nuovo non è iniziato, anche se già finito da un paio di mesi.