LA LUCE ROSA 18/2


Raccontato dall'autore

Martedì 6 febbraio 2018, tutto quanto detto e fatto nel precedente lavoro, merita di essere ulteriormente portato avanti e sviluppato per mezzo di nuove letture, nulla togliendo al suo contenuto. Si tratta di una variazione, rimane il tema, la sostanza, ma cambiano i punti di vista, cambia la lettura appunto. Rimane anche il titolo perché la fonte ispiratrice è la stessa del precedente. Cambiano i colori, perché col passare delle ore e dei giorni, interminabili ed infernali giorni, cambia la luce del campo, cambia la luce negli occhi e nella mente di esseri umani, e cambia o si annulla del tutto la poca luce rimasta nel cuore. Rimane però inalterato il colore che ti è stato cucito addosso, quel colore rimane lo stesso, forse un po' sbiadito, in certi casi ancora bello e luminoso, in altri quasi svanito del tutto, ma rimane pur sempre il colore rosa.
Ora mi voglio prendere una pausa staccandomi dal mio lavoro, per navigare, sperando di rimanere a galla, dentro il mare della storia. La storia sì, dove tutto ha avuto inizio e non solo per me, ma per tutti gli artisti che dalla storia -passato- hanno saputo trarre il giusto insegnamento, che noi conosciamo e classifichiamo come arte moderna e contemporanea. Niente nasce per caso, tutto è frutto di un divenire continuo che, partendo da ciò che la storia ci consegna dai tempi più remoti e dal buon innesto tra conoscenza ed esperienza, per mezzo della sapienza, ci proietta verso nuove scoperte e nuove interpretazioni che qui, in questo caso, chiamiamo variabili. Niente di nuovo all'orizzonte, ci mancherebbe.
Proprio perché ho menzionato la sapienza, la capacità cognitiva di valutare e mettere insieme cose e pensieri, non possiamo non menzionare le pitture rupestri, frutto invece di una mancata conoscenza, seppur ricche di genuina abilità. Partire col piede sbagliato non ci aiuta. Facciamo invece, un salto direttamente in uno dei periodi più significativi della storia dell'arte, un periodo che mette tutti d'accordo, indistintamente, sull'indiscussa importanza della modernità anticipatrice di alcuni artisti che hanno saputo cogliere con larghissimo anticipo il senso della modernità, nell'accezione più positiva e attuale del termine. Chiamiamo subito in causa Michelangelo Buonarroti e l'intuizione del suo famoso e geniale concetto del “Non finito”.
Il “Non-Finito” potremmo definirlo come la condizione interiore, la presa di coscienza destinata a svilupparsi nella mente dell’artista man mano che il suo pensiero matura in consapevolezza su quanto l’esperienza umana, nel senso della vita, racchiuda in sé il suo inizio e la sua fine. Un percorso concettuale imprescindibile e ineluttabile per un grande artista, per il quale sia impossibile indicare un punto di arrivo preciso. Fin dove si sarebbe spinto Michelangelo con la sua scultura (non parlo di pittura), se fosse vissuto ancora per altri cent'anni, isolato e decontestualizzato da tutto e da tutti, come peraltro amava vivere lui, nella sua casa romana a Macel de' Corvi, barbaramente demolita per far posto al fasto romano di cui già tanto dispone? Ma dico io, se invece di lasciare una striminzita targa a memoria della casa di Michelangelo, che nessuno nota, avessero lasciato in piedi l'intera casa con l'orto e magari avessero conservato dentro qualche sua ultima fatica, attrezzi compresi, ma dico io, quanta gente avrebbe potuto godere di tanta impareggiabile meraviglia lasciando nelle casse del comune fiumi di soldi, per vedere dove viveva, dove lavorava e dov'è morto con le piaghe ai piedi, il più grande scultore di tutti i tempi? Voglio semplicemente dire che in alcuni casi, grandi artisti del passato, ci avevano già fatto vedere con largo anticipo cos'è la vera modernità. Dentro ai suoi blocchi di marmo, Michelangelo sente e vede la vita e quindi la morte. È dentro al suo “Non-Finito” che Michelangelo stabilisce il punto di contatto con l’assoluto. A conclusione di questa riflessione, va ricordato che il percorso stilistico di Michelangelo raggiunge e supera tanti artisti del Novecento che pensavano di aver segnato un’avanguardia spostando lo sguardo dal reale e dal modello tipicamente classico alla più personale e articolata ricerca psicologica. Il suo Non-Finito -scultura- e il Non-Finito di Tintoretto -pittura-, solo per citare i due nomi a me più cari, sono la profonda suggestione tra forma, nel senso di idea del soggetto e proiezione, nel senso di introspezione psicologica di se stessi, dell’artista. Chi si chiederà quale sia il collegamento del concetto relativo al “Non-Finito” con quello che qui si racconta, lo capirà molto bene alla fine di tutto questo percorso.
Avviciniamoci adesso un po' più ai nostri tempi. l'introduzione della macchina fotografica nella prima metà del IX sec. aveva già dato il colpo di grazia sulla testa di alcuni artisti, in seguito ne ricevette uno molto forte anche Claude Monet, un colpo che gli fece da battistrada per le sue molteplici rappresentazioni al limite del verosimile, un po' visionarie, sempre ispirate dalla conoscenza classica, ma mediate e filtrate dalla nuova scoperta, bagnate e sviluppate dall'anima. Ecco che prendono forma le molteplici rappresentazioni della facciata di Notre Dame di Rouen. Rappresentazioni scandite anch'esse dal battere delle ore del giorno e della notte, e che ci hanno regalato l'essenza stessa di quelle architetture, facendole battere il cuore e facendole respirare. Gli artisti hanno saputo rendere umane le cose, dando loro un'anima, Dio le ha solo messe a disposizione degli uomini. In questi casi, l'artista sa come dare vita a cose che, solo per chi non vuole o non sa vedere, non hanno vita. Nessun Dio è mai stato capace, per davvero, di rendere una cosa inerme capace di muoversi, di respirare e di vibrare per comunicare, come invece lo sono stati tanti grandi artisti. Lasciatemi libertà e piacere di movimento se attingo ora a citazioni come quella del misterioso e fantomatico scrittore e filosofo Fulcanelli che coniò il termine gotico, nel senso di magico, nel suo affascinante volume “Il Mistero delle cattedrali” del 1926 e che tratta dei simboli alchemici presenti nelle architetture delle antiche cattedrali gotiche. “L’art gotique”, dice il Fulcanelli, “altro non è che una deformazione ortografica della parola argotique, la cui omofonia è perfetta. La cattedrale, dunque, è un capolavoro d’art goth o d’argot” il cui significato letterale è: “un registro linguistico proprio di un particolare gruppo di persone o sociale, il cui scopo è quello di non essere comprensibile agli estranei”. Chi sono gli estranei se non coloro che vedono solo quello che si vede per mezzo di occhi sporchi di limiti e pregiudizi?
Di seguito riporto un importante, direi fondamentale a parer mio, commento del critico d'arte Piero Adorno: « Come un musicista può comporre un numero indefinito di variazioni su un tema, così Monet varia senza alcun cedimento qualitativo un tema ben noto a tutti: la Cattedrale di Rouen è uno dei più importanti monumenti gotici francesi. Proprio la celebrità del monumento, oggetto di visite turistiche, riprodotto in migliaia di fotografie, dà a Monet l'occasione di superare la banalità della cartolina illustrata che inquadra equilibratamente il soggetto; la facciata è vista obliquamente e solo in parte; le torri, i lati sfuggono alla nostra attenzione; non ce ne è mostrate né l'altezza né la larghezza; possiamo liberamente integrarla ciascuno secondo la propria sensibilità, così che da semplici spettatori ci trasformiamo in attori, diventando compartecipi della creazione, che non è statica (ossia già compiuta e perfetta), ma dinamica (ossia in divenire e perfettibile) »
L'Adorno ha giustamente sottolineato come, risentendo della recentissima invenzione della fotografia, Monet non abbia colto il monumento frontalmente, in maniera tradizionale, preferendo piuttosto adottare un punto di vista leggermente disassato, per via del quale la cattedrale non si vede che in parte, obliquamente: «ma se la cosa è sempre una cosa definita» sottolinea Giulio Carlo Argan «l'immagine tende a ingrandirsi, ad occupare tutto lo spazio della nostra coscienza, ad oltrepassarlo persino. Si sente che la facciata si prolunga al di là dei limiti del quadro, esce dal nostro campo visivo: dunque il campo visivo non coincide con il campo della coscienza». Non finirò mai di ringraziare Giulio Carlo Argan per gli insegnamenti da lui ricevuti, per nulla facili da masticare e digerire, ma fondamentali per capire e penetrare l'arte nel più profondo dei suoi segreti.
E ancora, questi dipinti seriali, pur apparendo liricamente perfetti ad un osservatore odierno, causarono al loro autore gravi dissidi interiori. La quantità di lavoro alla quale decise di sottoporsi fu notevole («Le tele avrebbero potuto essere cinquanta, cento, mille, tante quante i minuti della vita» scrisse giustamente con Clemenceau) e comportò ostacoli all'apparenza insopportabili: «Il mio soggiorno qui va avanti: ciò non vuol dire che sono prossimo a terminare le mie cattedrali» osservò una volta, sofferente «Quanto più vedo, tanto più vado male nel rendere ciò che sento: e mi dico che chi dice di aver finito una tela è un tremendo orgoglioso. [...] Lavoro a forza senza avanzare, cercando, brancolando, senza arrivare a granché, ma al punto di esserne stremato». Fu, tuttavia, un'odissea pittorica assai feconda: «Ogni giorno» osservò Monet con sempre rinnovato stupore, «aggiungo e scopro qualcosa che non avevo ancora visto».
Le Cattedrali di Monet, in effetti, si sono imposte come vere e proprie icone della pittura occidentale, e hanno riscosso un'eco notevolissima. Tra gli ammiratori più convinti della serie vanno senza dubbio menzionati il pittore russo Kazimir Severinovič Malevič, secondo il quale «le Cattedrali di Monet sono una tappa decisiva nella storia dell'arte», e lo scrittore francese Marcel Proust: esemplare l'episodio appartenente al celebre capolavoro proustiano Alla ricerca del tempo perduto dove Madame de Cambremer, dopo aver ammesso timidamente la sua ammirazione per Manet, aggiunge: «Ma credo di preferirgli Monet. Ah! Le cattedrali!». Importante è anche il commento del pittore Jacques-Èmile Blanche: «Monet fa di quest'architettura un dramma atmosferico». Sempre Proust, poi, aggiunse: «Queste ore [...] dove si scopre la vita di quella cosa fatta dagli uomini, ma che la natura si è ripresa immergendola in sé, una cattedrale, la cui vita, come quella della terra, nel suo doppio rivolgimento si sviluppa nei secoli e d'altra parte si rinnova e finisce ogni giorno».
Ma scusate, non è forse musica per le nostre orecchie questa, che emette così com'è scritta, suoni soavi per cervelli fini, facendoci sognare ad occhi aperti e prendere coscianza visiva e spirituale di un lavoro artistico ispirato da un Dio che ci ha chiamato per sopperire ai suoi limiti?
Vale la pena, infine, citare per intero l'analisi che Georges Clemenceau , che ammirava molto Monet, fornì a proposito della serie delle cattedrali:« Chiedo scusa ai professionisti, ma non posso resistere al desiderio di fare, per un giorno, il critico d’arte. La colpa è di Claude Monet. Sono entrato nella galleria di Durand-Ruel per vedere ancora una volta con tutta calma gli studi della cattedrale di Rouen che avevo già avuto la gioia di vedere nello studio di Monet a Giverny, ed ecco che questa cattedrale dalle molte facce l’ ho portata via con me, senza sapere come. Non posso liberarmene. Mi ossessiona. Devo parlarne. E, bene o male, ne parlerò. […] L’oggetto, di per sé privo di luce, riceve dal sole la vita, e ogni capacità di impressione visiva.
Ma le onde luminose che lo avvolgono, che lo penetrano, che lo fanno irradiare nel mondo, sono in perpetua turbolenza: sciabolate di lampi, nebbioline di luce, tempeste di splendore. Che sarà del modello sotto questa furia di atomi viventi attraverso la quale traspare, attraverso la quale ci è manifesto, grazie alla quale, per noi, “esiste” realmente? Ecco ciò che adesso va necessariamente visto, ciò che la pittura deve esprimere, ciò che l’occhio deve scomporre e la mano ricomporre.
È, in effetti, quanto ha intrapreso l’audace Monet con le sue venti tele della cattedrale di Rouen, suddivise in quattro serie che denominerei: serie grigia, serie bianca, serie iridata, serie azzurra: Con venti tele dagli effetti diversi, appropriatamente scelti, il pittore ci ha dato l’impressione che avrebbe potuto, che avrebbe dovuto farne cinquanta, cento, mille, tante quante i secondi ancora concessi alla sua vita, se la sua vita potesse durare quanto il monumento in pietra, e in più la sensazione che a ogni battito del suo polso potesse fissare sulla tela altrettanti momenti del modello. Per tutto il tempo che il sole resterà su di lei, ci saranno tanti modi di essere della cattedrale di Rouen quante scansioni del tempo l’uomo sarà in grado di effettuare. L’occhio perfetto li distinguerebbe tutti perché si riassumono in vibrazioni percettibili anche per la nostra retina. L’occhio di Monet, precursore, ci precede e ci guida nell’evoluzione visuale che rende più penetrante e più sottile la nostra percezione del mondo. […]
Della tecnica non dico niente. Non è affar mio. […] Ciò che importa è che vedo sorgere il monolito [della cattedrale] nella sua potente unità, nella sua autorità sovrana. Il disegno compatto, netto, matematicamente preciso sottolinea, con la concezione geometrica dell’insieme, sia l’organismo delle masse, sia gli spigoli vivi del groviglio scultoreo […].
Appese al muro, le venti tele sono venti rivelazioni meravigliose, ma la stretta relazione che le lega sfugge, temo, all’osservatore frettoloso. Ordinate in base alla loro funzione, rivelerebbero la perfetta equivalenza tra l’arte e il fenomeno: il miracolo. Immaginatele disposte su quattro pareti così come lo sono oggi, ma in serie di transizione di luci: la grande massa nera all’inizio della serie grigia che via via diventa sempre più chiara, la serie bianca che va dalla luce sfumata alle precisioni splendenti che proseguono e si completano nei bagliori cangianti della serie iridata, i quali si addolciscono nella calma della serie azzurra e si dissolvono nella divina nebbia turchina.
Abilmente scelte le venti differenti condizioni di luce, le venti tele si dispongono in un certo ordine, si dividono in categorie, si completano secondo un compiuto percorso evolutivo. Il monumento, grandiosa testimonianza del sole, dardeggia il cielo con lo slancio della sua massa autoritaria offerta agli assalti della luce. Nelle sue profondità, nei suoi slanci verso l’alto, nei suoi possenti recessi o nei suoi spigoli vivi, il flutto dell’immensa marea solare accorre dallo spazio infinito, si rompe in onde luminose che colpiscono la pietra con tutti i colori del prisma o appaiono placate in chiare oscurità. Da questo incontro nasce la luce, la luce cangiante, vivente, la luce nera, grigia, bianca, azzurra, porpora, tutte le gamme di luce. Il fatto è che tutti i colori sono bruciati di luce, “ricondotti”, secondo l’espressione di Duranty, “all’unità luminosa che fonde i sette raggi prismatici in un solo lampo incolore che è la luce”.
Allora, con un ampio colpo d’occhio che abbraccia il tutto, avrete, in una folgorazione, la percezione della cosa fuori del comune, del prodigio. E quelle cattedrali grigie, che sono di porpora o di azzurro violentato d’oro; e quelle cattedrali iridescenti, che sembrano viste attraverso un prisma girevole; e quelle cattedrali azzurre, che sono rosa, vi daranno tutt’a un tratto la visione duratura non più di venti, ma di cento, di mille, di un miliardo di aspetti diversi della cattedrale di sempre nel ciclo immenso dei soli. Sarebbe la vita stessa, così come può essercene comunicata la sensazione nella sua realtà più intensa. Ultima perfezione d’arte fin qui mai raggiunta.
Scusate le nobili citazioni, che mi sono servite, oltre che per un godimento mio personale, anche per fare capire l'essenza umana e spirituale del mio lavoro. Una spiritualità la mia che non va mai intesa in maniera convenzionale. La spiritualità che intendo io è da intendersi più come un perenne esercizio dall'effetto omeopatico che mi diverto fare per cercare risposte, quando da tempo la mia convinzione di non poterle trovare è già legalmente certificata, sottoscritta e archiviata. La mia spiritualità è tutto e di più, tranne che un cieco e incondizionato atto di fede. Auspico che dopo quanto fin qui detto, risulti tutto più chiaro, magari anche più credibile, per la buona pace dei criticoni che non sanno criticare. Per la buona pace di chi l'arte moderna, la conosce, la considera e la valuta solo in base al valore battuto nelle Aste. L'Arte ha bisogno di essere prima capita, poi penetrata nel senso metaforico di essere sessualmente posseduta, amata, sì, idealmente penetrata in tutti i sensi, e solo dopo aver goduto, per ultimo, monetizzata. La mera monetizzazione dell'arte ha per me lo stesso valore che ha un fazzoletto sporco che si getta via dopo aver fatto sesso.
Se è vero che parlando di Arte si sprecano termini e paroloni quasi sempre inutili e fastidiosi da sentire e sopportare, tanto sono più simili ad inutili e stucchevoli orpelli ornamentali che a sincere e necessarie considerazioni, è vero anche che se riduciamo tutto a semplici battute, risulta difficile fare insieme un percorso costruttivo ed istruttivo, nel senso di educativo. Ecco perché mi sono avvalso di citazioni autorevoli e ben raccontate e di esempi miei estremi e che spero sortiscano l'effetto desiderato. Sviluppare molteplici variazioni su un tema, senza ripetersi inutilmente, non è cosa facile. Per risultare interessanti e meritevoli di nota, le variazioni devono avere, ciascuna variazione, una loro vita indipendente le une dalle altre. Mi verrebbe da dire una loro ben distinta e sensata giustificazione di esistere, nel senso di vivere. Quando il tema riguarda un concetto astratto come “La luce”, ancor più infiniti si prestano ad essere gli svolgimenti sul tema, e per risultare buoni svolgimenti, credibili e sensati, devono essere prima filtrati da credibili e sensati, ancorché faticosi e meditati pensieri. Anche quando si è davanti al disordine, alla gestualità più cruda e spietata, ad un'apparente confusione che sembra accostarsi più alla pazzia che al virtuosismo accademico, non fatevi trarre in inganno, perché nulla è più ingannevole di una affrettata lettura che ti nasconde la suprema verità. La verità si rivela per mezzo della conoscenza e dell'esperienza fatta di cruda e nuda fatica, la fatica del lavoro e del costante sacrificio, dell'estro e dell'ingegno, che solo un vero artista sa esprimere. Capire come tutto questo sia possibile e spiegarlo poi, è un'altra ardua faccenda. Ecco perché quando mi sento dare del pazzo, dello strano, come vuole la tradizione, mi sento semplicemente incompreso, e capisco di essere nel giusto e ne vado fiero. Dico questo convintamente perché, chi osserva dal di fuori è spesso tratto in inganno e si limita a commenti per mezzo di facili ed inopportune considerazioni, dimenandosi inutilmente dentro un pantano di idiozie senza più sapere come uscirne fuori, mischiando e omologando tutto dentro un minestrone immangiabile. La verità è bugiarda quando è suffragata dall'ignoranza, e maschera sempre una stolta superficialità.
Tutto si dilata e si propaga nel tempo infinito, quando a suonare e dirigere un'orchestra ci sono bravi musicisti e bravi direttori, come tutto si materializza per sedimentarsi nell'essenza più sublime di un concetto universale, se a mescolare genialità e colori ci sono grandi artisti. Questo è il bello dell'arte astratta perché intorno e dentro un'apparente facilità di esecuzione, dove più togli e limiti (la modernità anticipatrice e già consumata di Michelangelo), più racconti e penetri l'infinito. Dentro questo vecchio concetto sta la rivelazione dell'arte più sublime e impenetrabile, della vera e sincera arte astratta.
Voglio concludere riproponendo ancora una volta la bellissima e acuta, frase di Monet, che col suo permesso faccio mia: “il pittore ci ha dato l’impressione che avrebbe potuto, che avrebbe dovuto farne cinquanta, cento, mille, tante quante i secondi ancora concessi alla sua vita".
Cosa aggiungere ancora, cosa dire di più di quanto questa frase non abbia già magistralmente detto e chiarito, e che io con tanta fatica e malamente, e forse un po' volgarmente, ho cercato di raccontare?