LA LUCE 19/2


Raccontato dall'autore

Oggi 8 marzo 2019 inizio a raccontarvi della “La luce 19/2”, che in questo caso si può dire, più che mai, essere la continuazione della precedente. Tanto sono rimasto colpito dal primo “19/1”, che ho deciso di proseguire su questa strada prolungando questo percorso, a parer mio, già bene iniziato. Quanto lungo sarà, ora non lo so, ma di certo so che sarà un percorso più lungo del solito. Oggi 19 giugno 2019, mentre sto rileggendo il tutto prima di pubblicarlo ( questo racconto non ha goduto del tempo e della concentrazione necessari e adeguati come i precedenti), ho iniziato nel frattempo una nuova avventura, diversa da quella presa finora, e questo smentisce ciò che avevo già scritto mesi fa.
Come ho più volte detto, le varianti sul tema “La luce” che si possono adottare e interpretare con la pittura, ma fosse anche con altre forme d'arte, sono infinite. In questo caso la variabile principale è la scelta del colore, un altro primario, con tutto il suo sottobosco infinito di scale “tonali e musicali” che salgono e che scendono, ancor più se questa luce la si accende dipingendo col misterioso e indecifrabile colore blu.
Nel mentre, dipingendo, si materializzano strane forme caleidoscopiche che altro non sono se non i nostri piccoli universi fatti di pezzi di noi stessi, che cercano, vagando e giocando nel nostro immaginario, di trovare la maniera giusta di intersecarsi tra loro per comporre una storia, in questo caso “La luce”.
Ma la luce blu la si fa entrare anche dalla finestra della vita “mente”, quando davanti ci si spalancano orizzonti infiniti caratterizzati da bagliori fulminei, che altro non sono se non i nostri innocenti e puri desideri, pensieri, fantasie.
La luce è ovunque noi siamo, solo che a volte non la vediamo, ma la luce è sempre presente intorno a noi, è il nostro lato buono e positivo della vita, che ama giocare a rimpiattino con noi. La luce è vita, la luce è la nostra vita, la luce siamo noi, perché la luce è dentro di noi. Mentre sto scrivendo queste inutili riflessioni che mai nessuno leggerà e men che meno capirà, oggi domenica 10 marzo, il lavoro inizia a muovere i primi veri passi. Diciamo che inizia a stare in piedi da solo, aspettando che diventi grande e vada, anche lui, a vivere da solo e da figlio indipendente la sua vita. Se non è vero amore questo, allora cos'è? Ho deciso che voglio essere a Parigi a giugno per Artexpo 2019 con la curatrice e critico d'arte L. Z., speriamo ne valga pena. 19 giugno, a Parigi non andrò. Saranno dodici anni che manco da Parigi, la città dove stavo per trasferirmi a diciotto anni per frequentare l'École supérieure d'études cinématographiques, dopo aver passato l'esame d'ammissione, era il 1977. Che tempi, che sogni, che aspirazioni, che passioni, e che tormenti. Quanto studio e quanti lavori già fatti a quell'età, che bello quel periodo, poco prima che arrivasse la tempesta. Tutto questo si è infranto quando mia mamma e Giovanni mi dissero che se fossi andato a vivere con loro all'isola d'Elba, se avessi cambiato la mia vita, se avessi frequentato Architettura a Firenze, mi avrebbero mantenuto loro, diversamente, sarei stato cacciato di casa e mi sarei dovuto arrangiare. Ebbene, la seconda, ovviamente, era la strada più misteriosa e affascinante da percorrere, di sicuro la più adatta per uno come me, e così è stato.
Domenica 10 marzo, questa nuova luce in blu sta uscendo fuori, pian piano, ma sta uscendo.
Cari amici, quando guardate i miei lavori, vi prego di riflettere, sui tanti sacrifici e rinunce che si fanno per portare avanti questa passione. Sacrifici economici, e tante rinunce, compresa la sfera affettiva che, non ho ben capito se mi manca per davvero oppure no. Per quanto mi riguarda, col poco tempo che ho a disposizione, se non mi sacrificassi quasi completamente, come potrei portare a termine i miei lavori; sarebbe davvero impossibile. Se è vero che nella vita non si può avere né fare tutto, allora preferisco morire da povero e senza un soldo, senza affetti particolari, a cui sono già abituato peraltro, ma non potrei mai perdonarmi di morire senza aver dedicato tutto il tempo che mi rimane a fare ciò che sto facendo, dipingere.
Quando dipingo sono felice, e non lo dico tanto per dire, è vero. Che poi, abbia anch'io momenti di sconforto e di malinconia, è altrettanto vero, ma che faccio, ormai la decisione è presa, e a qualcosa bisogna pur rinunciare per arrivare là dove volano le aquile imperiali. Ebbene sì, il dado è tratto, e la mia scelta non so se mi porterà dritto a Roma, ma di sicuro mi porterà da qualche parte, chissà, anche questo lo scopriremo solo vivendo. Accetto quello che ho, facendo di tutto per tenermelo stretto, non mi lamento, anzi, e tiro dritto andando avanti così, dritto per la mia strada. Perché questa, volente o nolente, è la mia vera strada, quella che ho sempre sognato di percorrere fin da piccolo. Un altro mio sogno, ancora nel cassetto, sarebbe quello di avere la fortuna di non morire dove sono nato, non so perché, ma morire dove si è nati, l'ho sempre vista come una cosa da sfigati. Frase da radical chic? No, è semplicemente la voglia di vivere tutto e dappertutto, potendo, contemporaneamente. Altro casino mentale che mi porto dentro da sempre, voler tutto e a tutti i costi. Concetto più da paranoici che da radical chic. Del resto, se ho passato una vita da single a Verona, posso tranquillamente desiderare di andare a godermi la pensione altrove, cambiando aria e luce, a contatto con l'acqua – mare -, elemento indispensabile per vivere bene. Desiderio legittimo!? No, questa è una stronzata! Discorso da “intellettualoide” forse, più che da radical chic, perché so bene che non mi servirà possedere tutto questo per avere tutto quello che desidero. Io sento di avere un dono immenso, ve ne ho già parlato del mio capitale nascosto, del mio tesoretto che porto sempre con me, la capacità di vivere dappertutto pur rinchiuso nel mio bilocale. Credetemi, non servono capannoni immensi per fare della buona arte, non servono Atelier particolari in centro storico per fare della buona arte. La buona arte si può fare anche stando in una prigione se ti consentono di avere tela, colori e pennelli.
Di cambiare aria ne sento davvero il bisogno, Verona è bella, bellissima, ma è una città piccola, piccolissima, per chi immagina di vivere in una città ideale dove al suo interno ci sia tutto, mare compreso. E' imbarazzate l'ignoranza e il provincialismo che trasudano fuori da ogni dove quando si osserva o si parla con la gente, ridicolmente mascherata e travestita in stile ancien régime. L'odore dell'incenso e il profumo dei soldi che si lascia alle spalle la folla di Verona quando cammina per le vie del centro, quando esce da una chiesa per entrare in un negozio. Tutti, nella loro imbarazzante convinzione, si sentono investiti di qualsivoglia forma di autorità. Anche a Verona si recita a soggetto, mentre si distribuiscono gli gnocchi di carnevale in piazza Bra o mentre si espongono cartelli e distribuiscono volantini sul diritto all'esistenza dell'unica famiglia vera e possibile, quella definita stupidamente, naturale. Nessun'altra stupidaggine è stata mai coniata da chi si esprime in questo modo, che regga il confronto con questa. La frase davvero più stupida che abbia mai sentito pronunciare da essere umano, è quella sulla Natura che crea cose e persone contro Natura stessa. Ignoranti! Questa è Verona, questa è la città dell'amore, una città tra le più visitate d'Italia. So bene che al pari suo ce ne sono tante altre, molte altre, magari peggiori, ma io vivo qui e a Verona mi riferisco.
A Verona basta essere membro di un'associazione, di una circoscrizione, di un comitato di carnevale, di un membro del partito degli gnocchi, per sentirsi investiti di autorità divina, quindi infallibile, e in quanto infallibile, indiscutibilmente unica e assoluta. Roba da matti, come dice il famoso detto: “Veronesi tuti mati”. Vero è che, centrifugando la pazzia e l'eccessiva esuberanza se ne dovrebbe trarre un succo a volte buono da consumare, ma non è questa la sede e il momento per deviare il discorso. Oggi, la pazzia di Verona e di gran parte dei veronesi, è una pazzia che andrebbe curata solo obbligando tutti a ritornare sui banchi di scuola.
Domenica 17 marzo, mentre rientravo dal mio solito giretto in centro prima di pranzo, passando sul ponte di Castelvecchio ho visto due donne con tanto di casacca catarifrangente gialla, che stavano tranciando i lucchetti lasciati dai numerosi turisti che transitano sul ponte più famoso della città. Questi lucchetti, belli o brutti che siano, per me non sono né belli né brutti, sono semplicemente il segno del nostro tempo e testimonianza di un affetto amorevole, un po' fiabesco e un po' kitsch, lasciato dai turisti di tutto il mondo, punto! A voi sembra che in una città dove tutto si sta trasformando e banalizzando in favore di un turismo mordi e fuggi basato sulla favola di due giovani innamorati, basato sulla serialità di un merchandising industriale, secondo solo a quello della produzione dei pandori e di opere liriche di esclusiva e mafiosa verdiana tradizione, ci si possa permette il lusso di puntare l'attenzione sui lucchetti che devono essere tolti a tutti i costi perché deturpano la città? A me, tutto questo, fa solo vergognare ed imbarazzare tantissimo, e proprio non lo concepisco.
Io mi sono fermato, ho chiesto provocatoriamente a queste due “donne” (viste da dietro sembravano due uomini) cosa stessero facendo e, pur essendo già chiara la loro missione, da brave veronesi, non cogliendo il senso ironico e provocatorio, mi hanno chiesto se volevo aiutarle, ah ah ah, beata ignoranza! Al ché non mi sono più trattenuto, e ho detto loro che si dovevano vergognare di togliere quegli oggetti innocenti, ricchi di tanti significati e ricchi anche di tanto amore, stupido e banale finché si vuole, ma altrettanto innocente, innocuo, e pure simpatico.
Quei lucchetti stanno rovinando l'immagine del castello, mi risposero. No signore, quei lucchetti non stanno “rovinando” proprio un bel niente, casomai quei lucchetti stanno solo rovinando quelle poche idee malsane che avete sedimentato nella vostra mente, risposi io. A riprova della loro ignoranza mi dissero che la città e i monumenti sono di tutti, appunto, incalzai io, quindi, anche di chi ha voluto lasciare questo oggetto a testimonianza del suo passaggio a Verona, del proprio amore. Non credo fossero programmate per recepire tutto questo, infatti, come succede in questi casi, alzarono la voce dandosi manforte, urlandomi dietro qualcosa che non ho voluto capire, e me ne andai. Ditemi quello che volete, non mi interessa, lo rifarei cento, mille altre volte!
Il negozio che cuce le scritte più stupide del mondo su tovaglie e tovaglioli, sui grembiuli e sui bavaglini per bambini, e che confina con la bellissima casa medioevale conosciuta come la Casa di Giulietta, quello invece, non deturpa niente, vero?... Tant'è, stendiamo un bavaglio pietoso!
Questa è la città di Verona oggi, figuriamoci se venisse qui Banksy per lasciare una sua opera d'arte su un muro della città, si riunirebbe in seduta straordinaria la giunta comunale per chiamare immediatamente la Protezione Civile, mobilitando tutte le forze dell'ordine per fermarlo e arrestarlo. Sì, Signore e Signori, questa è la città di Verona oggi. Welcome nella città della vergogna nazionale. La città che sguinzaglia il proprio personale, pagato da tutti, anche dai turisti che mettono i lucchetti dell'amore sui ponti, e che hanno pagato anticipatamente 3,50 euro a persona per pernottare in città. Questa è la Verona che Shakespeare, un inglese, ha reso famosa in tutto il mondo.
Se fosse solo per la bassissima mediocrità espressa della politica veronese, che da sempre ha privilegiato la chiesa all'università, l'ipocrisia alla coerenza, la chiusura all'apertura, l'importanza che ancora oggi si da al carnevale e alle Pasque veronesi, il sostegno alle manifestazioni pro famiglia naturale contro le famiglie contro natura ( ahahahah... ), questa città sarebbe di sicuro la più sconosciuta e la più snobbata del mondo. Questa città è una città contro Natura e, conseguentemente, contro l'apertura dell'intelligenza illuministica che, guarda caso, si chiama: Déclaration des Droits de l'Homme et du Citoyen.
Veronaaaaaaaa, sveglia!!!
Domenica 31 marzo, ho trascorso tutta la giornata in casa cercando di andare avanti il più possibile con questo lavoro, e ne è valsa la pena. Quando ci si sacrifica per un buon motivo, il sacrificio si trasforma in piacere. Spero di terminarlo entro la prima settimana di aprile, fare in fretta le foto di rito, pubblicarlo in tempo per Mantova Artexpo 2019 presso il Museo Diocesano Francesco Gonzaga dal 8 al 16 giugno 2019.
Devo dire che questo nuovo lavoro, che segue a ruota in tutto e per tutto il precedente, ( impostazione grafica e titolo, cambiano solo i colori ), mi convince sempre di più. Il colore blu sta emergendo con tutte le sue variabili cromatiche in modo inaspettato, meno scontato del precedente. La Luce in blu, trasuda di emozioni che appartengono più al mondo dei sogni, della psiche, più che al fenomeno naturale inteso come fonte di luce ( la gamma dei rossi e dei gialli ), a cui siamo abituati a fare riferimento. Pensandoci bene, anche il colore blu è presente in natura sotto forma di luce, in maniera meno evidente dei toni caldi, ma pur sempre presente. Ad ogni modo, non è di certo la serenità che trasmette questa luce blu, che vibra e che pulsa, lasciando intendere qualcosa più di sinistro che di pacifico e sereno. La pazzia, la confusione, il disagio mentale, l'orrore, gli incubi, la morte perfino, questo sembra emergere maggiormente. Io sono un po' allergico ad usare il termine “Natura”, tanto è cosmica la possibilità di fraintendere e di attribuire a questa parola accezioni solo positive. La Natura è perversa, maligna perfino, e molto ambigua. Quindi, quando parliamo di Natura, per favore, o conosciamo quello di cui stiamo parlando o, per favore, tacciamo. Questo è quello che sento, penso e provo io; perché io vivo contro natura, nel senso che non seguo i suoi insegnamenti, non ascolto i suoi consigli, non faccio quello che la Natura mi dice di fare, tuttavia, tutto quello che faccio è piacevolmente naturale.
Poi, come sempre, ciascuno può vedere e percepire tutto e il contrario di tutto. A fatica, ma sto cercando di entrare anch'io nell'ottica di un democratico libero arbitrio interpretativo. Non ne sono del tutto convinto, perché se c'è una logica che muove ogni cosa, quella logica dev'essere la logica di tutti, ma oggi si giustifica tutto, e giustificando tutto, niente più sembra avere importanza e valore di merito. Il valore che si da all'arte oggi, è un valore virtuale, effimero, lunatico perfino, in quanto soggetto al cambiamento repentino delle lune, le lune dei critici d'arte, le lune dei galleristi e, sempre più, le lune degli organizzatori di “Eventi”. Non conta più quello che fai, ma quanto/e ne fai, e quanto ci sei, di qua e di là, a destra e a sinistra. Fai una merda e sei in buone mani? Hai soldi da spendere per portare in giro per il mondo la tua merda? E' fatta, sei un grande, sei un vero artista, quotato, pubblicato e menzionato, recensito con stupidaggini ridondanti di aggettivi superlativi, ops, superflui, e portato come esempio! Cazzo, così funziona oggi! Che schifo!!!...
Per questo lavoro funziona così, mentre scrivo, oggi, siamo già al 8 di aprile, questa Luce è già terminata da una settimana e, tra il tempo e la voglia che mancano, non sono ancora riuscito a terminare quello che voglio dire. Quindi? Niente, vado avanti così, come capita. Avrete capito che con questo lavoro sono cambiate alcune cose, una su tutte il contenuto del racconto, meno concentrato su di me, sul mio passato ( almeno in parte ci sto provando ), e più mirato a raccontare del lavoro di cui ci stiamo occupando, e del mio presente. A questo punto credo proprio che continuerò su questa strada. Davvero non so cosa mi stia capitando in questo periodo, da un lato la quasi convinzione di aver chiuso definitivamente con questo passato prossimo, dall'altro una sorta di sbandamento, di smarrimento misto a stati di benessere e ad altri di malcontento, mai di depressione. La voglia di cambiare rotta, la voglia di proseguire su una rotta già iniziata ma non ancora ben definita. Mi capite ora se vi dico che, comunque la si veda, lo stress emotivo di un'anima sempre in pena, permane e non accenna a diminuire. Proprio oggi ho ricevuto la scatola con il solito kit di premi (Catalogo, attestato, targa), per la partecipazione alla collettiva di Parigi che si terrà a giugno, e per la seconda volta in pochi mesi, hanno sbagliato il titolo del lavoro pubblicato. Invece di scrivere il titolo esatto, riportato in mille salse dappertutto, hanno scritto: “La luce rosa”, punto!.
Ma dico io, per la seconda volta, l'editore palermitano mi sbaglia il titolo. Io mi incazzo come una bestia – umana -, chiamo, mi sfogo, e cosa mi sento dire da chi mi ha assistito in questi ultimi mesi ( storica dell'arte nonché critica d'arte ), pur sapendo del precedente “incidente” da me subito e sempre della stessa natura: “Ma io, non mi occupo della fase che riguarda la stampa”. Io ascolto, rimango basito, stupito, senza parole, e mi chiedo: Ma con chi cazzo di gente ho a che fare io, ecc. ecc. ? Sai che per il precedente errore ( perché questo non è il primo ), ho messo in piedi un casino al limite del troncamento netto dei nostri rapporti, sai benissimo che non sopporto gli errori sui titoli dei miei lavori, e voi che fate? Mi sbagliate per la prima, la seconda e la terza volta?! No comment!
Questa sera, venerdì 12 aprile, sono andato allo studio del fotografo Marco Bravi per gli scatti di rito del lavoro “19/2”, e a dire il vero non è stato per niente facile trovare quello giusto, tra i tanti, fatti. E' proprio vero, per bella che sia una fotografia, anche se eseguita con i mezzi più moderni e sofisticati, non potrà mai eguagliare un originale. Quando si vanno a visitare i Musei, le Gallerie d'Arte, o in generale quando si è davanti ad un'opera d'arte, ci dovrebbe sempre essere accanto una lente d'ingrandimento, una luce mirata e ben dosata, un silenzio umano tombale, e una musica pertinente con volume ben dosato e un giusto tocco di profumo, in armonia col lavoro che si sta guardando.
Già che c'ero, ma avevo già programmato il tutto portandomi al seguito l'occorrente, ho chiesto a Marco di farmi uno scatto che, in qualche modo, più che rappresentare e celebrare il sottoscritto, desse un supporto ulteriore e diverso dalla singola pittura, un supporto foto-sceno-grafico per raccontare meglio, ancor meglio, la cerebralità che sta dentro le viscere dei miei lavori.
Io figura, io uomo e pittore, in posa ieratica e regale, da semi-dio, con in mano i simboli del potere, che altro non sono se non i poveri strumenti del mio mestiere. Al di là di certi supposti concetti sempre e solo intelletualoidi, sempre di gioco qui si tratta. Un gioco che è produzione artistica anch'essa, e che molto bene rappresenta e concentra in questa immagine tutto quanto ci siamo fin qui detti. L'uomo che, vivendo consapevolmente il suo presente, celebra con la sua conoscenza il passato, lo fonde e lo travasa nuovamente dentro il presente, lo ri-elabora per bene, lo confeziona per bene, e lo presenta vestito e profumato di nuovo, sempre per bene.
Questa mattina ho combinato un guaio e, dopo essermi messo, espressionisticamente, le mani intorno al viso, mi son detto: e mo che faccio? Non potevo fare davvero niente e lo sbaglio era evidente. Svegliarsi presto la mattina per dipingere, non è sempre una mossa vincente. Il tempo di fare colazione e di prepararmi, di ritornare davanti al quadro, riflettere, immaginare, e fare alla fine un sorriso liberatorio. Da un guaio, ne ho tratto uno spunto per procedere secondo la logica del guaio stesso, trasformando uno sbaglio in un'opportunità. E così, se ve ne renderete conto anche voi, sappiate che ho preferito, convintamente, assecondare questo errore e di proseguire giocandoci sopra. A voi trovarlo, ma è facile davvero trovarlo, basta confrontarlo col precedente.
Mentre scrivo questo, devo informarvi che non ho ancora terminato di scrivere, sbollendo così la mia rabbia per quanto successo a Verona in questi giorni. Oggi martedì 20 aprile, mi fermo qui, e ritorno ad occuparmi della prima parte, ad oggi, non ancora conclusa.
24 aprile 2019, domani si inaugura la collettiva d'arte qui a Verona, presso la Sala Birolli all'ex Macello ai Filippini, dove anch'io sarò presente con una mia minipersonale di cinque lavori.
“L'autoritratto in rosso e blu” del 2009, “Cuore rosa”, “Incubi 17”, “La luce rosa 18/4” e “La luce rosa 18/5”. Così, giusto per fare un piccolo viaggio dentro il mio tempo.
Renato Birolli, è stato un ottimo pittore veronese vissuto nella prima metà del secolo scorso. Di questo artista semisconosciuto, è doveroso sapere che ci ha lasciato in eredità, tutto o quasi, del meglio che i grandi maestri della prima metà del secolo scorso hanno prodotto. Dico questo perché Birolli è stato senza ombra di dubbio un grande pittore, un artista che ha saputo prendere il meglio dai grandi, a partire da Goya e Van Gogh fino a Picasso. E già respirava il vento dell'Action Painting americana, con tracce di Street Art newyorkese (il pannello musivo di Ravenna del 1957/59 quando J.M.Basquiat non era ancora nato). Solo che, mentre Birolli, italiano, sperimentava di tutto e di più, guardandosi intorno e indietro, gli americani, meno legati ai lacciuoli dell'Accademia, hanno saputo guardare avanti proponendo cose nuove e davvero moderne, contemporanee. Tirando fuori in questo modo il meglio del meglio che ancora oggi resta il meglio del meglio da 70/80 anni a questa parte. Devo dire che, meno Goya, meno Van Gogh, meno Ensor e Kokoschka, meno Cézanne, meno Matisse e soprattutto meno Picasso, meno tutto questo concentrato da pummarola, avrebbe di sicuro fatto emergere un Birolli più concentrato su Birolli. Ma tant'è, la storia si ripete e si riproduce in continuazione, e anche oggi siamo qui a ripetere le stesse cose già tante volte dette. L'unica attenuante che mi sento di dare allo stimato Renato è che se fosse vissuto ancora un ventennio, forse, avremmo visto cosa sarebbe stato capace di fare da Renato Birolli. Questo di sicuro, ahimé, non a Verona. Un pittore che ha girato il mondo e che ha fagocitato tutto il mondo dentro si sé, ma il mondo, a volte, bisogna saperlo ridurre e concentrare in uno spazio piccolo, semplice, in un niente, per farlo entrare dentro una sola valigia, la valigia – mente - che alla fine di tutti i viaggi ti porti a casa tua, fosse anche una spelonca. Oggi Renato Birolli, se fosse ancora vivo, sarebbe un ottimo insegnate di pittura.
Detto questo, sono stanco, davvero mi sento molto stanco e sento il bisogno di riposare un po', di tirare almeno per un po' i remi in barca. A distanza di un mese dall'ultimo lavoro, il racconto di questa “luce 19/2”, non è terminato, mentre con la testa sono già dentro al prossimo, che oggi, 20 giugno è già terminato e pronto all'uso. Mi chiedo a volte, sempre più frequentemente, se questo scrivere per raccontare un po' di serio e tanto di faceto, abbia ancora un senso. A volte, la risposta che mi do è quella di lasciare perdere tutto, ma per ora, non ne sono del tutto convinto e mi sforzo di terminare almeno questo.
Nella Luce 19/2 mi sono rifatto ovviamente al precedente, ma con alcune sottili modifiche e, come dicevo prima, facendo di un errore una soluzione per niente mal riuscita. Una forzatura involontaria, che ho accettato e che, se non fosse arrivata per sbaglio, avrei fatto sinceramente fatica a creare da solo. Meglio così, che per dove voglio arrivare io, meglio che capitino questi sbagli, e che questi sbagli diventino saggi maestri di Scuola e di sincera evoluzione artistica.
Ieri 25 aprile c'è stata l'inaugurazione alla Sala Birolli, come già dicevo, e direi che per quanto mi riguarda è andata bene. Bene nel senso che di gente ce n'era, ne è venuta, e per la prima volta da un po' di tempo a questa parte mi sono sentito bene, considerato. Con le persone che mi circondavano e volevano sapere cose molto più grandi di loro, io, che mi accorgevo che in tanti avrebbero preferito non farle certe domande, io mi sentivo bene. Tanto ero preso dal raccontare e spiegare i miei lavori che, quando ho sentito i crampi allo stomaco dalla fame, non era rimasto più niente da mangiare. Più furbo, si fa per dire, è stato il critico d'arte invitato, lo stesso che c'era a Treviso alla Casa dei Carraresi, che ha limitato il suo intervento a non più di cinque minuti, ripetendo come si fa con il copia e incolla, la stessa frase di Soncino e di Treviso. A cosa serve un critico d'arte all'apertura di una mostra di pittura se non parla, se non dice nulla, a niente!...
Questa la verità, piaccia o non piaccia sentirsela dire, così stanno i fatti.
Prima che qualcuno puntualizzi partendo per la tangente, io non sto dicendo che questo giovane critico sia un inetto, preso nello specifico, quando si applica, dimostra talento, magari ancora acerbo, ma che fa ben sperare. Io lo capisco, figuriamoci se non lo capisco, ma non lo difendo, e non lo scuso.
Oggi 7 maggio, non mi sono ancora ripreso da questo brutto periodo in cui mi sono intrappolato con le mie stesse mani, mosso da tanti buoni propositi, ma deluso da altrettanti comportamenti maldestri e privi di vera serietà professionale. In questo periodo, con in mente già il prossimo lavoro finito, La luce 19/3, ancora non riesco a preparare la tela per la prima stesura di colore.
L'amico gallerista F. B. mi accusa di farmi abbagliare troppo facilmente dagli specchietti per le allodole ( i tanti inviti che mi arrivano per partecipare a destra e a manca, a furor di denaro da sborsare, e via dicendo... ), vero, verissimo. D'altro canto anche l'amico F. B. credo, inconsciamente, confeziona a suo modo altrettanti specchietti, e non solo per le allodole, ma pure per gli allocchi. Né più né meno di tutti gli altri, e questo mi fa ulteriormente incazzare, e riflettere. A Verona sono stati portati in esposizione quadri che non sarebbero stati degni nemmeno di essere venduti al mercato dell'usato. Ma a Verona questi quadri sono stati esposti in quanto, cito testualmente: “Questo genere piace!”. Di che genere si tratta, del genere spazzatura!
Quindi, caro e comunque sempre stimato F. B., sarà la giovane età, saranno ancora le tante buone intenzioni ma ancora molto confuse, resta il fatto che suppergiù, quello fatto da voi a Verona, più o meno è la stessa cosa che fanno gli altri ogni tre per due in ogni dove. Finché sarà il dio denaro a muovere le fila del tutto, tutto si piegherà a 90° al suo cospetto. Mi piego io, e il dio quello vero, se esiste, sa bene quanto mi costi farlo, e ti pieghi tu caro F. B., tanto quanto gli altri. Non si fanno rimproveri e non si danno lezioni, se non si è puri, e di puri, su questa terra, non c'è proprio nessuno, papi compresi.
Durante un'esposizione in galleria, ci sta chi ha titolo per starci, non solo perché è un titolare socio. Anche questo è uno specchietto per le allodole, mal riuscito peraltro. In galleria, durante un'esposizione, quando entra un visitatore, chiunque esso sia, ci si alza in piedi, a me verrebbe da dire anche sull'attenti, e gli si fa capire che si è lì, non per farsi i cavoli propri con la testa sempre reclinata sul computer, ma si è lì a disposizione in caso di bisogno, e in ogni caso. Questo presume che, sotto sotto, anche molto sotto sotto, ci sia un minimo di competenza e vera professionalità. Diversamente, si paga qualcuno che sappia mettere insieme almeno quattro parole sensate per ogni quadro esposto. In subordine, se proprio non lo ha prescritto un medico specialista, di persistere, si cambia mestiere. Perché è sempre facile parlar male degli altri quando poi, alla resa dei conti, non si riesce a far di meglio.
Mi arriva a casa in questi giorni il volume del nuovo Annuario “Artisti'19”, per la Art Now di Palermo ( sempre Loro ), un volume di 1095 pagine, meglio sarebbe definirlo un minestrone, tante sono le varietà di verdure in esso contenute. E anche qui, affinché il minestrone risulti buono, il migliore, più varietà di verdure ci sono, migliore è il risultato. Siamo alle solite, ormai intuisco già l'ipotetica ipocrita e inconsistente risposta:”Caro Mauro, stai calmo, al mondo ci sono tantissime varietà di verdure e di frutti e tutti quanti sono buoni e commestibili, tutti quanti hanno diritto di esistere e tutti quanti hanno il loro e unico sapore, indispensabile tutto questo per un buon minestrone. Inoltre, più ne metti e più li mischi tra loro, migliore è il risultato”.
Certo, non lo so, forse sì, se parliamo di verdure e di minestrone può essere che più ne metti e più risulti buono, ma qui si ha l'ardire di parlare di Arte, avete capito bene, qui si ha l'ardire di parlare di Arte, non di minestroni. Quindi, che dire ancora, per me più niente, ci si deve solo rassegnare. L'Arte è finita nelle mani di commercianti e imbonitori, i quali hanno come unico scopo quello di lucrare puntando sulla quantità. Capito che di buono oggi non c'è più niente o molto poco, per guadagnare e guadagnare bene, bisogna accogliere tutti, giustificare tutti, premiare tutti, incensare tutti, dando a tutti quel minimo di contentino che permetta a tutti, alla fine della fiera, di pagare tutti. Tu, povero allocco che non sei altro, paghi, e paghi bene, ed io ti faccio specchiare dentro lo specchio delle meraviglie, una sorta di Mirabilandia per pittori allo sbaraglio, dove si specchiano e si rispecchiano gli allocchi. Io, quest'anno, ho deciso di fare la mia parte di allodola, con la consapevolezza di non permettere a nessuno di degradarmi al rango di allocco. Per questo motivo ho deciso che anch'io usufruirò degli specchietti per quest'anno, e poi tornerò ad occuparmi solo di quello che conta per davvero, la mia pittura. Insomma, questo ci impongono di fare, e per ora, poco ci resta da fare per sottrarsi a questa sorta di farsa mediatica mascherata da fata “turchesa”.
Ancora una volta mi sono sentito dire che quando scrivo sono prolisso, ed io, ancora una volta dico: Chi se ne frega! E aggiungo, perché sta storia mi sta facendo salire la pressione, che chi vuole leggere sappia che sta leggendo non solo la vita del lavoro a cui si riferisce ogni singolo racconto, ma anche la vita di Mauro Pavan. E la mia vita è una vita prolissa. Quindi, per favore, davvero per favore, basta con questo sciocco e poco pertinente aggettivo. Lo ripeto, io sono così, lavoro e produco questo, quello che vedete. Mangio in piedi e senza apparecchiare la tavola, e come mangio, parlo e mi racconto. Non vi sta bene? Non leggete, guardate e state in silenzio, e se non volete guardare o leggere fate a meno, ma per favore, lasciatemi vivere come cavolo piace e come cavolo decido di vivere io. Grazie!
E' evidente che questo lavoro sembra far pensare alla copia del precedente, errori nobilitati a parte, ma ci sono delle differenze che all'inizio non erano state preventivate e che sono maturate via via che si componeva il tutto. Questa è la vera genesi dei miei lavori.
Non che questo debba per forza essere un obbligo, le cose si fanno solo se si è convinti di farle e se reggono l'impianto per le quali sono state ideate, ma con la dovuta concentrazione, si riesce sempre a trovare quel qualcosa che, se cambiato o modificato rispetto al precedente, da più forza al nuovo che sta nascendo. Spero davvero, con tutto il cuore, di riuscire in settimana a preparare almeno la base sulla tela per La luce 19/3 che, anche in questo caso, sarà sì la continuazione dei due precedenti, ma con una sostanziale differenza di impostazione mirata anche ad esserne la logica conseguenza finale. Pam pam pam, tan tan tan, pum pum pum, trin frin ton, BUM!
Sequenza di battiti e di pause scandite da suoni, da note scritte e lette fatte di forme e di colori.
Da tempo sto pensando di far mettere, o meglio, di far suonare le forme e i colori che sono stati dipinti sulle mie tele. Una pazzia, una cosa insensata e inutile (?). Non so, io ci sento dei suoni dentro quando dipingo e, come li sento io, spero che un giorno li possa sentire anche un musicista compositore, e magari anche voi. Ecco una bella novità, tradurre in musica le note già scritte coi colori, e l'ampiezza delle loro forme, oltre all'estensione delle note stesse per mezzo del cambio dei toni cromatici, con le giuste e immancabili pause. Le pause rafforzano, le pause intensificano, le pause sono indispensabili. Con le pause si riflette e si coglie meglio il tutto, compreso il non detto, il non dipinto. Nella musica manca il colore, nella pittura il suono; in entrambi i casi, ci sono le pause. Proviamo a far vibrare, a far suonare un dipinto, e proviamo a dare forza, tono e colore alla musica. Insomma, per me, un bel dipinto deve emettere suoni, musica o solo rumore financo, ma qualcosa deve emettere per forza. Un dipinto che non emette suoni è un dipinto morto. Una musica che non fa vibrare cuore, anima, testa e corpo, che non suscita emozioni, che non emette toni e colori, è una musica morta.
La luce 19/2 mi piace molto, compreso quell'errore che, a poco a poco, mi ha perfino convinto. Convinto che si può andare fuori riga, e tono, fuori tema. Passeggiare in mezzo a percorsi secondari e sconosciuti, quando sai o intuisci che alla meta finale ci arrivi comunque. Quando un errore ti convince, come ho già detto, in quello stesso momento quello non è più un errore, ma un'opportunità.
Oggi 9/5/2019, finalmente, sono pronto, sono carico per riprendere a correre verso La luce 19/3.
Voglio chiudere questo racconto citando ancora una volta questa frase di Van Gogh, tratta da una lettera scritta al fratello Théo nell'aprile del 1885:
«[Con I mangiatori di patate] ho voluto, lavorando, far capire che questa povera gente, che alla luce di una lampada mangia patate servendosi dal piatto con le mani, ha zappato essa stessa la terra dove quelle patate sono cresciute; il quadro, dunque, evoca il lavoro manuale e lascia intendere che quei contadini hanno onestamente meritato di mangiare ciò che mangiano. Ho voluto che facesse pensare a un modo di vivere completamente diverso dal nostro, di noi esseri civili. Non vorrei assolutamente che tutti si limitassero a trovarlo bello o pregevole». Perché trovo questa frase così tanto straordinaria e attuale ancor oggi? Tanto mia, come se fossi io a ripeterla in continuazione, come si ripetono a raffica le preghiere la sera prima di coricarsi; quelle sì, senza alcun senso. Perché in questa frase il povero e grande Van Gogh aveva capito che il mondo stava cambiando, che stava cambiando in peggio. In questa frase si parla di povertà, di agricoltura, di merito, di lavoro onesto. In questa frase del 1885 si parla già del disagio che Vincent provava nel vedere cambiare la società come lui non avrebbe mai voluto vederla cambiare. In questa frase Van Gogh esprimeva il desiderio che si guardasse proiettando lo sguardo e la mente all'interno di ciò che nel dipinto si sta svolgendo, entrando dentro la scena, partecipando alla vita reale di quel momento specifico. Perché Van Gogh da artista sa bene che all'interno di un dipinto c'è la rappresentazione non di un fatto accaduto ed archiviato, ma la quotidianità che si ripete e che va in scena in diretta davanti allo spettatore che è lì, mi auguro, imbambolato, a fissare estasiato nell'intento di capire, e con il desiderio di farne parte. L'attualità di questa frase è imbarazzante! Mai, come in queste parole, si rispecchia il mio disagio per il degrado sociale a cui, il grande Van Gogh, già assisteva un secolo e mezzo fa.