LA LUCE 19/3


Raccontato dall'autore

Din don dan – pausa - din don dan... Oggi domenica 12 maggio, festa della mamma. “Alla mia cara mamma”, questa la dedica scritta sulla prima pagina di un quaderno a righe da me trasformato in rubrica telefonica, con tanto di lettere dell'alfabeto messe in fila, foderato di panno azzurro e una striscia in diagonale di passamaneria coi fiorellini sul fronte e retro. Avrò avuto circa 7 anni, non di più, quando in collegio confezionai questo regalo per mia mamma nel 1965. Oggi, a distanza di 54 anni, di mia mamma non so più niente, e non ho ancora capito se va davvero bene così, ma così è. L'ultima volta che la vidi fu nel 2010, per sole due ore, questo il tempo a lei concesso per vedere suo figlio. Questo distacco, ormai cronicizzato e definitivo, spero (?), non mi fa sentire né forte, né bravo, né furbo, né migliore, mi fa sentire solo un povero figlio. Un figlio fallito come figlio, che non ha mai capito ed imparato ad essere e a fare il figlio. Del resto ci sono donne che, pur avendo amorevolmente partorito, non hanno mai imparato a fare le mamme. Io non so cosa sia essere figlio di qualcuno, non me lo ricordo, sono passati troppi anni. Forse i veri e unici ricordi che ho come figlio, membro di una famiglia, sono quei due anni vissuti in casa del papà “Pino” e con mia mamma, a Grole una piccola frazione di Castiglione delle Stiviere nell'alto mantovano. Ricordo molto bene quella prima stanza usata a mo di soggiorno e cucina insieme, un vero open space. A destra dell'ingresso c'era un divano di plastica con stampati sopra grandi fiori rossi su fondo beige. Su quello stesso divano fu sdraiato col vestito nero il mio nuovo papà Pino, troppo nuovo e troppo poco usato, poveretto, morto dopo l'incidente subito con la moto, me lo ricordo come fosse ieri. Tanta volte mi sono chiesto se la morte di papà Giuseppe non sia stato un estremo atto d'amore, il sacrifico di un vero martire immolatosi per permettere a suo figlio di spiccare il volo in totale libertà. Chi sarebbe oggi Mauro Pavan se Giuseppe fosse ancora vivo? Al centro una tavola rettangolare parallela all'ingresso, sulla parete di fondo un classico mobile vetrina dipinto di colore azzurro (già si usava dipingere ogni mobile con colori dai toni pastello, tinte strane, prive di coraggio). Difronte all'ingresso c'era una porta che dava sul retro, dove si trovava il lavandino e un ripostiglio con tanto di tendina. Da lì, per mezzo di una scala si saliva al piano di sopra con le stanze da letto, la nostra era proprio sopra la cucina, la prima, salite le scale. La finestra della camera dei miei dava direttamente sul cortile principale, oltre il quale c'era una piccola stalla e un portico attrezzato con un po' di tutto. A lato della casa c'era una porzione di giardino, non so perché ma lo si teneva chiuso e recintato da una rete metallica che divideva la nostra casa con quella dei vicini, là, incontravo la mia amica Milena. Ci parlavamo, divisi da quella rete, come se fossimo in un campo di profughi, divisi da una rete, con le manine che si univano le une alle altre, niente di più.
Ricordo che la casa di Milena era, rispetto alla nostra, ancor più misera. Dalla grande stanza principale dove viveva tutta la sua famiglia, si accedeva, per mezzo di una porticina di legno con gradino, direttamente alla stalla. Allora si usava così, ci si riscaldava con il calore degli animali. questo particolare l'avevo sempre sentito raccontare dai miei nonni, ma la casa di Milena era così, era organizzata come quella dei miei nonni in trentino. Ho rivisto l'ultima volta Milena ai funerali dello zio Renzo, il fratello di Pino nel 2009, sempre a Grole, fuori da quella chiesetta che aveva lasciato in me qualche vago ricordo del funerale del mio papà Giuseppe, giugno del '63.
Oggi 12 maggio, festa della mamma, inizia la nuova avventura con “La luce 19/3”, dove si vuole unire, fondere, le due versioni precedenti in una sola e unica Luce.
A lavoro concluso, oggi 3 luglio, posso dire di essere riuscito nel mio intento, credo di poter affermare che la fusione c'è stata. Anche in questo caso, il blu mi ha distratto, mi ha disorientato e, invece di metterlo a destra, come era mia intenzione fare, è finito a sinistra, involontariamente. Ma tant'è, si tratta non di una scelta, ma di una casualità, a conferma del fatto che progetti precostituiti a parte, interviene sempre, quando si tratta di fare, quel qualcosa che esce lì per lì, e che non si riesce a gestire e non ti permette nemmeno di remagli contro. Guai, a remare contro il fato, autore insieme a noi del nostro presente, di questo risultato. Pur nell'ordine precostituito e soggettivo (razionalità poco razionale), o solo presunto, che in ogni caso si configura, salta sempre fuori una porzione di istintività – bestiale - che è innata – natura -, alla quale non ci si può opporre. Lo vado dicendo da mo che, quando si dipinge, si dipinge sempre in due, mai uno solo. C'è l'uomo pittore con le sue conoscenze, e c'è un altro uomo che non è un pittore, ma è altro. E' la somma di tanti uomini e donne, giovani e vecchi, che si sono formati e sono cresciuti negli anni dentro di lui.
E' la somma di tutte le esperienze fatte, positive e negative, che hanno dato vita ad un essere non sempre facile da raccontare e decifrare.
Quando un artista lavora, ci sono sempre due persone che stanno lavorando, mai una sola.
Saper dipingere bene, non significa saper vivere altrettanto bene. Essere un bravo pittore, non significa essere una persona altrettanto brava e buona con tutto e con tutti, animali compresi.
Da qui salta fuori la risposta quando dico che, per tanto che ci si impegni nel programmare un risultato, durante il percorso che ti porta a raggiungerlo, si sono inserite dentro le famose variabili “altrui”. Variabili che solo in parte sono tue, quelle che fanno parte della tua sfera emotiva e caratteriale, il tuo esistenzialismo. Variabili indirette, a te solo apparentemente estranee. Quelle che si sedimentano nella tua vita e che dipendono da tutti quei fattori esterni, ambientali, che ti hanno plasmato. Ecco chi è l'altro che ti sta sempre appresso, appiccicato addosso come lo è la tua ombra, dalla quale è impossibile separarsi. Un'ombra che ti segue, un fantasma che si materializza minaccioso ogni volta che vorresti allontanarlo da te. O più semplicemente sei solo tu e sempre tu che, secondo i momenti, i luoghi e le persone che ti stanno intorno, fosse anche una tela vuota da riempire, puoi esprimerti al meglio, oppure, tirar fuori il peggio che sta dentro di te. Ma tutto questo è risaputo, niente di nuovo, ci mancherebbe. Il mio volermi soffermare su questo punto, non riguarda l'aspetto antropologico e psicologico dell'individuo come uomo, materia che non mi compete, bensì dell'individuo come artista. E' come artista che questo duplice aspetto della personalità può, a volte, tornare utile per un buon componimento che vada fuori dagli schemi. E, andando fuori dagli schemi, può risultare buono, valido, unico e d'esempio, quindi, maestro. Maestro di vita, come maestro nell'arte. Non si è maestri se non si fa o non si è fatto qualcosa che sia andato fuori dalle righe, dagli schemi. Maestro è colui che si mette in gioco, si impegna nel percorrere una strada tutta sua – maestra -, e cerca di percorrerla smettendo di guardare agli altri, concentrandosi esclusivamente su quello che secondo lui è giusto e buono per lui. Gli altri, per un vero Maestro, sono già stati ingoiati, assorbiti e digeriti, non serve a nulla ruminare all'infinito.
Tutto questo per ripetere che, quando si inizia un nuovo lavoro, si pensa di conoscerne la sua fine. Fa comodo pensarlo, ti da sollievo e ti sembra che sia già tutto facilmente chiarito e concluso ancor prima di averlo iniziato, ma non è sempre così. Una parte dell'insieme è stata fatta non da te, me, ma da quell'altro, che sempre, ogni volta che si sta lì concentrati per fare quello che tu avevi in mente di fare, interviene e dice la sua, e se non lo lasci dire e fare, si incazza pure, e ti impedisce di continuare, il bastardo! Ecco come funziona quando si crea e non si copia. Per questo motivo, quando mi sono recato dall'amico Marco, il fotografo, ho voluto fare anche degli scatti in cui venisse messa in evidenza la doppia personalità, la mia in questo caso, ma che ciascuno di noi ha, nasconde o, ancor peggio, non sa di avere.
La luce rossa e la luce blu che si incontrano, si piacciono e si uniscono, non sempre civilmente, ed in mezzo, guarda caso, ci sono io. Non sto parlando della foto, in cui la soluzione è preventivamente già stabilita, ma nel dipinto no, nel dipinto niente è rivelato con facilità o dato per scontato. Non era scontato all'inizio come io potessi entrare dentro a far parte della scena. Quando era solo apparentemente finito il lavoro, le due luci si erano incontrate e fuse, mancavo io, ed io volevo esserci. Ecco che al centro del dipinto, contrariamente a quanto è stato creato nella foto, io entro a far parte del gioco con la mia maschera, una maschera di ferro, una maschera molto rigida, ma da me coscienziosamente forgiata, una maschera a guisa di scudo, che mi permettesse di dire, ancora una volta, la mia. Con me tra i piedi, in mezzo ai piedi (io sono sempre stato in mezzo ai piedi di qualcuno), questo lavoro è diventato più che mai mio. Senza di me in mezzo, l'occhio andava di qua e di là con troppa frenesia, come quando si guarda una partita infinita a tennis tra Djokovic e Federer.
Con me in mezzo ai piedi, tutto si è acquietato, e tutto sembra aver trovato il suo giusto equilibrio, la sua pace (?). Non lo so, non ne sono del tutto convinto (!). Forse tutto ha iniziato ad agitarsi proprio per questo motivo (!?).
In sostanza, quello che mi interessava dire di questo lavoro, l'ho detto. Rimane fuori la parte della pura creatività, la parte giocosa di tutto questo impianto scenografico, ma qualcosa su questo punto lo possiamo affrontare qui, adesso, insieme. Si nota benissimo che la netta divisione di quella che era la sola parte decorativa di sinistra, nei precedenti due lavori, è venuta facilmente fuori da sola. Così facendo, la parte predominante, in quantità, che prima stava spostata a destra, ora si è posta perfettamente al centro dell'impianto, dando l'impressione di essere più ampia, appunto, predominante. Anche la trama del tessuto, prima resa con il quadrato, qui si dissolve, si sfilaccia, si rammollisce, e si converte al rombo. La forza che esce con questa netta spaccatura che vede contrapposti i due schieramenti del blu e del rosso, andava sedata, diversamente avrebbe regnato il caos. Qui, con la “La luce 19/3”, si è voluto fare un passo ulteriore in avanti, rispetto ai due precedenti, un passo verso una possibile fusione dei due testé citati, inserendo una chiave di lettura che rendesse fattibile e buona la fusione. La chiave che ha reso possibile questa convivenza, non un matrimonio, una convivenza non solo litigiosa, è proprio quella maschera, quella serratura, quella quinta di ferro, rigida, forte, autoritaria che, posta in mezzo, concentra su di sé tutta l'attenzione. Crea quel giusto equilibrio facendo tenere ferma la testa dell'osservatore sul centro della composizione, senza più farla girare come una trottola a destra e a sinistra. Voi guardate nel mezzo, spiate attraverso le fessure, entrate dentro la scena mistica, attraversando prima il golfo mistico. Questo perché, proprio come accade a Teatro, voi spettatori rimanete fuori, estranei alla scena. Il golfo mistico è un po' come la barca di Caronte che dentro la scena vi accompagna, vi fa, in questo caso, passare direttamente dentro i fori mistici e così facendo, senza rendervene conto, vi trovate introiettati dentro un mondo – scena – che non è più solo la scena -scenografia -. Nell'aldilà il golfo diventa un immenso e sconfinato oceano, ancor più mistico, psicologico, sempre un po' psicotico, un po' poetico e verosimilmente magico. Tutto questo non spiega nulla e risulta essere solo una mera forma di esercizio lessicale (peraltro modesto), se non si entra dentro la metafora che accompagna auspicabilmente alla comprensione della pittura moderna e contemporanea post Freud e post Einstein, ma anche post Jean-Paul Sartre, non meno importante dei primi due già immensamente importanti. Tanto di tutto e tanto di niente, in quel vorticoso universo encefalico dell'uomo ancora tanto da scoprire, dove il tutto e il niente ancora oggi si assomigliano e non sempre si distinguono chiaramente. Dentro quel mondo sta nascosta la password che può aprire la porta alla verità, una verità che non potrà mai essere assoluta, appartenendo quel mondo al genere umano. L'uomo è frutto di una evoluzione e per questo contiene dentro di sé il significato assoluto di una metamorfosi mai conclusa. L'uomo non è Dio, e Dio non è uomo, parlando seriamente, e se tanto mi da tanto, tutto quello che riteniamo divino, sublime, mistico, altro non sono che artistiche fantasie buone e valide solo per produrre cose ritenute buone e valide e, ad un certo punto dell'evoluzione, anche belle. Se non fosse chiaro stiamo parlando di un mondo che di reale ha solo la fantasia, e questa fantasia, per bene che vada, se siamo fortunati, qualcuno riesce a trasformarla in opera d'arte contemporanea, che per me equivale ad astratta. Non serve essere credenti per vedere l'invisibile. Se un credente dice di vedere l'invisibile è molto probabile che non stia bene di salute, ma se a vedere l'invisibile è un laico, allora l'invisibile si materializza in concetti ed opere di provata e buona salute mentale. Nell'universo del non conoscibile esiste un caos di cui noi umani, specialisti vari in prima fila (io sempre in quinta), sappiamo ancora troppo poco, ma sappiamo di certo che dietro ogni maschera, c'è quel mistero ancora tutto da scoprire che ci affascina. Bisogna avere la forza e il coraggio di oltrepassare il confine, che è sempre un limite, per cercare, con le dovute maniere, di entrare dentro quel mondo mistico che a me piace immaginare come un grande Teatro. Sul palcoscenico di quel Teatro immaginifico io vedo quel caos cosmico non ancora acquietato, e che solo una intelligente opera artistica frutto della migliore conoscenza può rivelarsi all'uomo che si applica. Dentro quel caos sta una soluzione, per mezzo della quale, quel caos mai calmo, insegna e dona agli uomini la giusta serenità – soluzione - per guardare ad un futuro migliore, più bello, con più Arte. Ma l'arte vuole amore, l'amore come propulsore indispensabile per possedere e penetrare dentro l'arte. Questo significa che si deve investire molto più tempo ad amare e, lasciatemelo dire, molto meno tempo a pregare. Non ci può essere arte senza amore, e l'arte vive benissimo anche senza pregare.
Questa parte centrale del quadro, che da al tutto il giusto compimento, non era prevista in origine. Perché le cose – forme – non previste, ad un certo punto saltano fuori così, per magia, quando meno te l'aspetti? Perché io ho imparato ad ascoltare il dipinto, e il dipinto mi parla, il dipinto mi suggerisce cosa fare, come procedere. Il dipinto mi suggerisce i tempi, mi dice di aspettare, di riflettere, mi offre delle pause, e le pause è buona cosa usarle e sfruttarle.
Mauro Pavan, da qualche anno a questa parte, fondamentalmente dal 2016, da quando la stabilità economica e la serenità interiore mi hanno permesso e aiutato di disporre di più tempo per riflettere, e di riflettere con calma, per bene, quando sento il bisogno di fermarmi perché non sono convinto di come procedere, io mi fermo. Prendo la mia pausa, rifletto, mi prendo il tempo che mi serve, tanto so benissimo che se non è oggi è domani, si accende sempre una lampadina che mi dice come proseguire. Di solito questa lampadina, quando si accende non si accende mai per niente. Ecco perché si parte in un modo e si finisce in un altro. Si pensa di aver fatto un dipinto in verticale, ma poi, quando lo giri per firmarlo, ti accorgi che quel dipinto era stato fatto per essere guardato in orizzontale (questo è quanto è accaduto col prossimo, di cui vi parlerò in seguito).
Il bello del dipingere senza copiare (grande privilegio per un pittore), è quello che ti permette di essere passivo, mai completamente, anche con la pittura, quando è la pittura che ti dice come metterti, come piegarti, e così facendo, assecondando la natura – istinto -, capisci che è bello.
Questa maschera centrale è davvero essenziale per la buona formazione di questo lavoro, da quando è stata posta sopra, al centro, non potrei immaginare di guardarlo senza di essa. E' la maschera che ti sprona, come un diavoletto, a “spiare” dentro la serratura del mondo sconosciuto che sta là dietro, in fondo, e che si può scoprire solo se si ha l'ardire di farlo, di osare, contravvenendo alle “buone” maniere. Mi capita, guardando questo dipinto, di percepire quella strana sensazione che provo quando mi soffermo a fissare l'acqua dell'Adige che scorre via libera e impetuosa, anche vigliacca, sotto i ponti di Verona.
Il magnetismo io lo percepisco, la voglia di osare io la provo perché mi appartiene, e questa voglia esercita su di me la stessa curiosità che provava Ulisse nel voler sentire il misterioso canto delle Sirene. Questo è un aspetto che voglio approfondire. Sento che si tratta di qualcosa di buono che va approfondito meglio. Sento che devo insistere. Mentre ai lati ha inizio una danza, un gioco erotico, formato da due gruppi contrapposti e idealmente rappresentativi del bene e del male, dei buoni e dei cattivi, che alla fine si uniscono e si amano, dopo aver danzato energicamente, rimanendo ben distinti gli uni dagli altri. Immagino corpi nudi di giovani danzatori con questa verticale di triangoli che ricopre tutto il corpo, mentre danzano liberi all'interno di un teatro greco, spoglio di quasi tutto. Delle tele-tende formano le quinte e i fondali della scena, appese a mezza altezza tra le colonne per mezzo di grandi anelli, e sostenute da semplici tiranti di metallo, stop! Corpi nudi danzanti e decorati, chi di blu, chi di rosso, poche tende a mezza altezza stese in verticale tra una colonna e l'altra e luci diffuse (quanto basta) che esaltano il tutto e, di tanto in tanto, esaltano ora i corpi dei danzatori, ora il tendaggio, ora la storia che si rivela per mezzo delle architetture rimaste vive grazie a degli onorevoli ruderi. I corpi si fondono col tendaggio (anch'esso decorato con lo stesso motivo dei corpi), le luci si fondono coi corpi e con la scenografia tutta. La storia riprende a vivere con quel poco che resta di un ineguagliabile passato che, ancora oggi, ci educa.
Movimento, frenesia, vortici e spirali, lampi e tuoni, la giusta musica con flauti e arpe, stop! Profumo che si diffonde dappertutto, un profumo inteso, un profumo forte, che profumi di pulito e di fresco, e odori di sesso. Con questa messa-in-scena, risvegliamo gli appetiti degli Dei, riportandoli a vivere in mezzo a noi. Se a dare corpo ad un credo religioso serve, dicono che basti, la fede, ebbene, per tutto questo la mia fede sarebbe davvero cieca.
Questo è quello che può accadere, anzi, che si può vedere se osiamo guardare oltre, oltre le fessure della maschera di ferro o di bronzo, che sta al centro della scena. Se ai lati abbiamo la decorazione, il piacere sensuale, il desiderio, il divertimento, la Filosofia, al centro c'è l'Uomo. Al centro c'è la sofferenza, l'inquietudine, la forza bruta, la curiosità non sempre onesta e pulita dell'uomo, e tanta ipocrisia – maschera -, al centro c'è la Storia.
Ieri sera 10 luglio, su Rai Storia ho visto con molto interesse un'intervista del 1961 a Giorgio de Chirico, in bianco e nero ovviamente. Beh, ieri sera ho amato per la prima volta quest'uomo, non tanto per la sua pittura, ottima peraltro, ma per quello che disse all'epoca.
De Chirico lamentava la mancanza di spessore, di qualità nella pittura del dopoguerra, come dargli torto. Si, certo, ok, abbiamo capito... Si parlava di pittura, della capacità di saper disegnare e dipingere in senso stretto, non di fare arte come la si intende oggi in senso molto allargato, chiaro adesso? De Chirico fece l'esempio di un uomo benestante con velleità di scrittore, dotato di una libreria colma di ottimi libri classici, voglioso di poter diventare un bravo scrittore, ma con nessun talento e attitudine per la scrittura. A fatica quest'uomo riusciva a mettere insieme parole e concetti. Ebbene, nella pittura è la stessa cosa, diceva De Chirico, e lo vado dicendo anch'io da tempo, ma tant'è! E' sufficiente avere quattro soldi, comprare tele e colori e lasciare che le mani impiastrino sulle tele cose e macchie del tutto scollegate dal cervello e, consentitemi, anche dall'anima. Se volutamente scollegate, possono produrre buoni risultati, anche ottimi, se non volute e scollegate perché un collegamento vero e proprio non si riesce a mettere insieme, producono solo effetti lassativi.
In soldoni, il collega aveva ragione da vendere, perché cari amici, saper dipingere, è cosa diversa dal saper fare altro. La pittura è pittura, un'istallazione, per sensata e buona che sia, ammucchiare sapientemente oggetti o persone in uno spazio, è altro.
Quando un artista non sa dipingere, cosa fa? Prende quello che gli capita tra le mani, sapientemente in taluni casi, lo sistema, lo compone, lo assembla a terra, su una parete o sopra un qualsivoglia supporto, e crea una situazione che, lo ripeto, se ben orchestrata, si definisce indiscutibilmente arte. Nessuno vuole togliere niente a nessuno, l'importante è mettere ordine nel disordine. De Chirico ed io siamo artigiani pittori, altri sono altro, punto! De Chirico con in mano colori e pennelli e sotto il braccio le sue tela ha percorso la sua strada, io, altrettanto ben armato, ho percorso la mia.