Giovedì 1° novembre 2018, oggi vi consegno la “Luce rosa 18/5”, e di seguito vi racconto come
questa Luce è nata.
Invitato a ritirare l'ennesimo e inutile premio (sul fatto in sé non dico altro, per non iniziare subito con una polemica seguita da qualche imprecazione poco cristiana), mi sono fatto una settimana di vacanza nella città imperiale di Palermo. Erano anni che non facevo una vacanza da solo, in un luogo sconosciuto e in totale libertà e autonomia, con la salute e l'entusiasmo a mille. Entusiasmo adolescenziale, voglia di vedere tutto e di vivere tutto, mi hanno dato la carica giusta e indispensabile per tuffarmi nei meandri di questa città.
Io non sono tipo che chiede poco, ma da Palermo ho ricevuto tutto quello che potevo ricevere, senza tanto insistere, e quando dico tutto, dico tutto. Storia, arte, cibo, spremute e gelati per strada, premiazione, interminabili passeggiate, divertimento notturno, imprevisti da film dell'orrore, e tanto sesso.
Primo giorno, domenica 20 luglio, subito a visitare la Cappella Palatina, non lontana da dove alloggiavo. Già la conoscevo, avendola studiata per bene, ma come tutte le cose, viste dal vivo sono tutt'altra cosa. O ti stupiscono ancora di più, fino ad entrarti dentro e spaccarti lo stomaco, come è successo in questo caso, oppure ti deludono, in quanto l'aspettativa era maggiore della realtà. La cattedrale vista da fuori è da mozzafiato, una vera opera d'arte in stile arabo. Di notte poi, la cattedrale, da sola vale una visita a Palermo. Entri, almeno così ho fatto io, e dopo dieci minuti ero già fuori, tanto strideva il contrasto tra la magnificenza esteriore e la nuda e anonima proprietà interiore. Spremute e granite a non finire, ma niente dolci o panini assurdi che ho cercato di non mangiare per almeno quattro giorni, quando una sera, verso l'una di notte, mentre mi avviavo per la prima volta verso un parco malfamato, vinto dalla fame, ho assaggiato il panino con la milza. Ma si sa, quando si ha fame tutto è buono, e quella sera avevo tanta fame. La cattedrale di Monreale non è da meno della Cappella Palatina, anzi, ma essendo molto più grande, non mi ha catturato e avvolto allo stesso modo.
A Monreale, fuori dalla chiesa, ho assistito ad un matrimonio tipico, in costume tradizionale e, anche solo per questo, è valsa la pena di esserci andato. Chiese, musei, piazze, fontane, teatri, compresi i tanti e famosi mercati di Palermo. A Ballarò mi sono commosso, avevo un nodo alla gola quando, dopo averlo visto su internet, e desiderato di ritrovare, proprio quel posto, per mangiare il pesce, improvvisamente mi sono trovato davanti la stessa bancarella e gli stessi piatti di polpo e acciughe già pronti per essere divorati. Cose semplici, cose genuine, cose coi piedi ben radicati a terra, e col calore delle persone molto vive che le animano e le colorano. Cose semplici che, se le fai entrare dentro di te, alla stessa maniera dei mosaici e delle architetture traforate o quelle arricciate (a Palermo si trova di tutto), ti spaccano in due lo stomaco e il cuore.
La luce dorata, che il sole a tutte le ore del giorno muove sulle pareti dei monumenti più nobili, sulle torri, sui campanili e sulle cupole arabe e cristiane, la luce che il sole stende per asciugare i panni stesi e indorare i muri delle case, animando i tappeti già vissuti e disegnati con le tipiche ceramiche che rivestono le terrazze, è un tutt'uno con la luce che sprigionano i nobili mosaici di Palermo. I colori sgargianti dei dolci esposti lungo le vie principali, i colori dei vestiti, dei ventagli, delle ceramiche messe in bella mostra per i turisti, i colori dei gelati e della frutta esposta, pronta per essere spremuta e bevuta all'istante. Una luce ambrata e ricca di tante storie importanti, una luce mai spenta, che illumina ancora gli occhi della fiera gente di Palermo. Una luce dorata e magica, che i palermitani hanno stampato perennemente sul volto, un volto peraltro sempre un po' melanconico, consapevoli comunque, che tanta della gloriosa storia che ha segnato il loro passato, in parte, ancora palpita e trasuda fuori. Oggi però, quella fierezza li sta soffocando e si sta spegnendo, morendo con loro. A Palermo tutti si sentono a casa loro, di sicuro ci si sente rilassati, al sicuro, perché Palermo non fa distinzioni tra residenti e “foresti”, anzi, ha il potere di far sentire tutti un po' palermitani, non al primo giorno però.
Venerdì 21 settembre, ancora non ho messo mano a questo nuovo lavoro. Ancora sono sotto l'effetto allucinogeno di un'estate particolarmente frizzante che non vuol finire. Nel senso che sto per davvero, dopo anni, assaporando il gusto della vita, del divertimento, del relax mentale e di nuovi e brevi colpi di sole che mi hanno risvegliato gli ormoni maschili. Ormoni in entrata e ormoni in uscita, in un va e vieni continuo che non si vedeva e non si sentiva da tempo.
Sento in ogni caso di essere giunto agli sgoccioli, inizio a sentire la mancanza di nuove forme e colori che fanno vibrare la tela. Sta iniziando la fase dell'astinenza. Devo riprendere al più presto a lavorare, perché sono convinto che sono altri, gli ormoni che mi agitano il fuoco dentro. Ormoni né maschili né femminili, ma ormoni che riassumono e rappresentano tutti gli ormoni esistenti dentro il corpo di ogni essere vivente, maschio e femmina, animale e vegetale senza distinzione alcuna. Questi sono gli ormoni della mia crescita, una crescita che non vuole saperne di mettersi la testa e il cuore in pace. Una crescita che non vuole smettere di crescere. Il carattere, ahimè, lasciamolo perdere, con quello la battaglia è già persa da mo'.
Sabato 29 Settembre, la tela ha preso a muoversi, finalmente, era ora. Adesso la mia felicità è totale. Archiviata l'estate, un'estate davvero turbolenta, si ritorna a fare quello per cui sono nato, quello che ho sempre sognato di fare, quello che mi rende felice dentro e che mi piace fare, dipingere. Dipingere sperando di fare qualcosa di buono, di buono non solo per me, ma anche per chi resterà e verrà dopo di me. Per quelli che vivono con me, invece, nutro poca speranza sulla loro competenza e coraggio, e che faccia loro muovere un dito, non puntato all'insù o all'ingiù, ma puntato dritto verso di me.
In questa prima fase è ancora Palermo che mi sta suggerendo come muovermi, in attesa che Mauro Pavan esca fuori e dica ancora qualcosa di suo. Ma questo già lo so che inevitabilmente accadrà. Per ora scelgo il tessuto, preparo trama e ordito, poi, sopra, arriverà anche il bel ricamo, un ricamo che avrà ancora come cuore pulsante la sua Luce rosa. Un ricamo che avrà la forza e l'importanza di un sigillo, di un timbro impresso con gusto e con determinazione in egual misura. Non illudetevi cari critici e professori, Mauro Pavan non ricama solo per il gusto di ricamare, ma ricama anche, inesorabilmente, per il gusto di continuare a combattere. Pennello e righello sempre sguainati e pronti all'uso.
Quando dipingo, in completa solitudine, accompagnato da una bella musica, io mi sento felice, mi sento pieno di emozioni e non mi sento mai solo, perché?
Perché, pittura, meditazione, musica e perfino il silenzio, mi appagano così tanto da non sentire il bisogno di possedere altro?
Perché l'amore per la pittura mi occupa così tanto la mente e il cuore da non avere più spazio per niente e nessuno?
Perché in certi momenti mi sento così felice da provare un dolore al petto come se il cuore stesse per spaccarsi in due, e piango di gioia. Allora mi fermo, respiro, ringrazio la vita, mi asciugo gli occhi, e continuo a lavorare.
Perché non riesco più a dire di sì a qualcuno, sapendo che poi, per questo sì, dovrei trascurare la pittura?
Perché quando dipingo ascoltando la mia musica, ho come la sensazione di essere su in cielo, e di vivere lontano e staccato da tutto e da tutti?
Qualsiasi siano le risposte, cosa poco importante, io sento di stare bene, cosa fondamentale. Sento di non voler più intorno a me cose e persone che mi procurano solo malessere, sofferenza e delusione e, soprattutto, dedicare il mio prezioso tempo a qualcuno che mi ruberebbe tutte le energie e la tranquillità che mi sono necessarie per dipingere. Adesso va così. Sento che son fatto per stare tutto dentro ad un solo contenitore, e questo contenitore, dove io ci vivo, mi sacrifico, e do tutto me stesso, si chiama pittura. Questo è il mio mondo, è il mio corpo, il mondo del bello che mi circonda, e che mi rende felice con poco. Più passa il tempo e più avverto l'importanza di una vita che va vissuta di più con ciò che si ama e ci fa stare bene , l'essenziale, che non per tutto il resto, il superfluo.
Per un pittore che ha sofferto tanto, e quando dico tanto, dico tanto, quando si smette di soffrire perché dalle sofferenze hai imparato a prendere le dovute distanze, allora sei pronto per fare il balzo mistico che ti eleva sopra tutto e tutti, diventi anche tu un super eroe, e non desideri più niente. Desideri solo di poter lavorare dando sempre tutto te stesso, in totale tranquillità e possibilmente, in santa pace.
Domenica 14 ottobre, terminata la base del tessuto, ora deve arrivare il ricamo, per impreziosire il tutto, ma attenzione, niente sarà come ci si potrebbe aspettare da un avvio siffatto, niente sarà scontato e banale. Qui ci si gioca la reputazione storica, o dentro o fuori. O ci sei, o ti fai. O inutile e stucchevole virtuosismo, o intelligente virtuosismo che sappia coniugare il passato al presente, e ci anticipi un futuro.
Ebbene, anche questa volta il dado è tratto e, seppur lentamente e con la mente un po' annebbiata, intravedo un ipotetico e soddisfacente epilogo.
Martedì 16 mattina, mentre stavo spazzando i viali del condominio, in tutta tranquillità, e con la mente mai dormiente, capivo che il sigillo finale doveva essere di quelli tosti, di quelli per cui il temuto virtuosismo fine a se stesso, non dovrà e non potrà prevalere sui più velati, ma sempre presenti, richiami storici. Non che sia un peccato mortale, dovesse mai succedere, ma per ora il concetto del virtuosismo fine a se stesso, privo di un qualsiasi riferimento – n'importe quoi -, inteso come punto di partenza, è ancora in là da venire.
Dirò di più, poter arrivare ad una forma espressiva avulsa di tutto, beh, che dire, sarebbe l'apoteosi. Ma l'apoteosi, per quanto mi riguarda, sarebbe una mera illusione, una presa per il culo, perché al di là di tanti bei discorsi, nulla che sia fatto dall'uomo, ancorché da un'artista, può mai rappresentare il nulla, lo zero positivo, nella sua essenza e assenza più totale. Ogni azione fatta o espressa dall'uomo, sia essa in forma di pittura o altro, non può considerarsi totalmente estranea dalla conoscenza, che, in quanto tale, anche subordinata alle mille e legittime sue varianti, non potrà mai essere priva di un valore e di un significato, per quanto astratto possibile. Tutto poggia sul pilastro della conoscenza già acquisita. Maggiore è il desiderio di staccarsi da essa, maggiore risulta difficile la sua attuazione, in quanto si percepisce l'immensità di tale peso che grava su di noi, sulla nostra coscienza, che, essendo conoscenza, è parente stretta della consapevolezza, che ci schiaccia e ci costringe a rimanere ben ancorati, a volte fin troppo, a terra.
Nemmeno uno squarcio nella tela può considerarsi credibile, quando, ad uno fatto e ammirato con sincero stupore, se ne aggiungono mille altri, confezionati per la prostituzione di un mercato mai sazio. L'astrazione è e rimane un concetto astratto, che non si può spiegare e risolvere con un niente, casomai con la soggettività di un'idea che lo presume. Diversamente, si giustifica con l'inganno, unica forma di persuasione che da millenni tiene in piedi il sacro col profano, compresa l'arte.
Ogni forma d'arte, benché vicina alla sua soluzione, sarà sempre una pallida copia di ciò che l'uomo ancora non conosce, che è, ma che potrebbe essere di più, o non essere mai. Ecco che il concetto di astrazione può, casomai, essere considerato come un guizzo impalpabile e inafferrabile che ti passa davanti all'improvviso, che tu afferri solo idealmente, e fai tuo. E nel farlo tuo, buon per te, fai quello lì che hai preso tu, non quello che hanno afferrato altri, altrettanto buoni e validi, magari. Non so se funzioni proprio così, io preferisco rimanere col dubbio che non sia solo così. Per quanto mi riguarda, infatti, questi guizzi li afferro anch'io, però io me li sono sempre scelti e sudati.
Si può tentare di rompere definitivamente col passato, ma questo non significa aver spiegato e risolto definitivamente il presente, né tantomeno, anticipato il futuro. Di definitivo e risolutivo a questo mondo non c'è niente. E' il divenire che, secondo me, merita maggior attenzione e rispetto, in quanto più credibile, imprescindibile, sicuramente più attendibile e logico.
Parlare del futuro è in gran parte, parlare di astrazione, perché quello che conosciamo e di cui ci occupiamo noi oggi, parte del conoscibile, è solo il parziale di un tempo indefinito che l'uomo crede di aver capito e concluso, ma in realtà nessuno sa a che punto stiamo. Nessuno può dire se stiamo giocando il primo o il secondo tempo, se siamo ancora all'inizio o se ci stiamo avviando verso la fine. Non esiste il futuro in senso assoluto, come non esiste l'astrazione in tal senso, perché ciò che noi crediamo possibile, e rendiamo fattibile, non può contemplare ciò che ancora non ci è dato di sapere. Casomai sappiamo cos'è il presente, e col presente, per chi non vuole surriscaldarsi troppo il cervello, può confrontarsi e cimentarsi. Purché sia un presente, non un passato prossimo, molto caro ai troppi che preferiscono reiterare facili scorciatoie attingendo all'altrui esperienza.
Torniamo tra di noi coi piedi ben saldi a terra. Per quanto mi riguarda, quello che sto facendo in questo periodo, lungi dal voler risolvere chissà cosa, chissà quale arcano mistero, intende comunque tracciare un percorso che metta in comunicazione il già fatto, con ciò che rimane ancora da fare, senza spaccare nulla, senza abiurare nulla, senza gridare né abbaiare inutilmente per demolire o difendere chissà cosa. Casomai si tratta di iniziare a costruire qualcosa di nuovo, utilizzando quello che abbiamo già utilizzato di buono in passato. Magari gli stessi strumenti, gli stessi supporti, la stessa vera passione e, magari, anche quella buona dose di bravura e umiltà di cui si sente tanto la mancanza.
Ma allora, dove sta la novità se tutto o quasi appartiene al già fatto, al già visto e al già vissuto, e sembra che più nulla sia possibile fare? La novità sta nell'idea, appunto, di cominciare a ricostruire qualcosa di nuovo per mezzo di nuovi progetti-idee, e finalità-ideali , che sappiano interagire tra loro e sappiano riversare ancora una volta nel presente, il meglio di quanto abbiamo già fatto e vissuto in passato.
Mi spiego meglio, utilizzare il passato, significa in primis conoscerlo, averlo studiato, magari averlo anche fatto, e, fondamentale, averlo amato. Riportare il passato nel presente, per e con nuove finalità, credo sia un'ottima maniera per ritornare a fare vera arte come da troppo tempo, ahimè, non si vede. Senza togliere nulla ad esperienze nuove e diverse da questa, ritornare ad usare i colori, saperli tra loro mescolare per tirar fuori una tonalità specifica che solo quella tu vedi e accetti di vedere, lavorare con penna biro e righello, le gomme per cancellare non servono ad un cervello sveglio, e tanto tanto occhio, ti riporta a vedere e a considerare il mestiere del pittore come lo si deve vedere e considerare. Un lavoratore artigiano che a testa bassa, testa china sui libri, sui colori e sulla tela, testa china in quanto testa pesante, perché pensante, lavora sodo col solo scopo di fare cose “uniche e belle”, semplicemente questo. Potrebbe essere questo un nuovo modo per ridare lustro a quello che di meglio noi italiani abbiamo sempre dimostrato di saper fare. Potrebbe essere questo il nostro nuovo Rinascimento. Potrebbe questo tornare utile alla bilancia commerciale del nostro Paese da un lato, e dall'altro riconsegnare all'Italia un ruolo culturale di primo piano che possiamo gestire meglio di chiunque altro, una volta escluso dai giochi la malavita e tutti gli ignoranti che ad essa strizzano l'occhio, e che a mala pena distinguono un'oca da una gallina.
Basta con la presunzione di fare cose nuove basate sul niente, sul niente di un niente.
Basta con la presunzione di fare il poco – sintesi -, spacciandolo per un tutto assoluto. Basta spacciare per arte ciò che sono solo schizzi di colore senza arte né parte, come senza arte né parte sono gli schizzi di una eiaculazione virtuale.
Basta perorare l'idea malsana e fuorviante che fare arte sia cosa facile e accessibile a tutti e, ancor peggio, che tutti se ne possano occupare per poi sindacare. Basta con queste stupidaggini e ipocrisie, basta!
L'ho sempre detto e sempre lo ripeterò fino alla morte, non basta pasticciare sulla tela coi colori per pretendere poi che questi pasticci vengano chiamati arte, e il pasticcione, artista. Imbecilli, e presuntuosi che siete, l'arte non è cosa per tutti. L'arte è una cosa seria e nobile, e solo chi è serio, nel senso di preparato, e nobile in tutto, può pensare di fare arte. Gli altri, poveretti, vanno capiti e compatiti, e magari, con una cristiana pacca sulla spalla e un sorriso di cortesia, liquidati, niente di più. l'Arte pretende rispetto, punto!
Anche il concetto di sintesi è del tutto relativo. Io parto dal presupposto che la vera, unica e credibile sintesi, sia il nulla assoluto, il tutto di un niente programmato.
Diversamente, anche il “poco di buono” è e rimane inopinabilmente discutibile e soggettivamente riconducibile ad una mera idea, ad una ipotesi di sintesi. Ma la sintesi dev'essere per forza una e uguale per tutti? No di certo, a meno che, per sintesi-astrazione non si intenda portare allo zero assoluto un concetto o un'idea, annullandolo definitivamente. Come ho già detto, in questo modo sì, togliendo di mezzo ogni forma di espressione, non resta che esprimersi con la personalizzazione, anche ideologica, ma non necessariamente, del nulla col nulla, se il mercato lo chiede, te lo supporta, in quanto lo giustifica. Diversamente non sarebbe possibile fare più niente, e andremmo tutti a casa, perché tutto si è compiuto. No, anche questo è troppo.
In sostanza, la sintesi-astrazione, si manifesta sotto varie declinazioni che non possono prescindere dal punto di partenza da cui si sono generate. Se dentro un frullatore io metto una carota, una mela, un sedano, un limone, un kiwi e del prosecco, e poi frullo il tutto, ho forse creato una sintesi? In un certo senso sì, ma resta il fatto che in quella sintesi, ciò che ho messo, seppur in forma diversa e non riconoscibile, resta per intero. Non provate a farlo, è una supposizione.
Il mestiere del bravo pittore è come un frullatore, come una giostra che gira, una città sempre in festa con le luminarie sempre accese. Questo mestiere è una ubriacatura perenne, una ubriacatura molto dolce e molto amara allo stesso tempo. Il risultato di questo specifico frullato, il frullato di cui stiamo parlando qui tra noi ora, questo frullato, con questa Luce, che meglio sarebbe chiamarlo spremuta, è Palermo.
Per un'artista, la vera, unica e credibile sintesi, si manifesta solo con l'estremizzazione di un gesto compiuto e definitivo – n'importe quel -. In questo modo verrebbe meno la stupida fragilità umana che pecca e reitera sfacciatamente il peccato per questioni solo di opportunismo, e si tiene a galla, si alimenta e specula, su un'idea distorta che si vuol dare di questo concetto, forzandone la mano.
Sopra una superficie piana – tela -, trattata a muro - supporto -, che normalmente chiamiamo quadro, anche se apparentemente troviamo tanto, nel senso di tutto, sto parlando della “Luce rosa 18/5”, la novità di cui tanto e forse malamente mi sono sbrodolato addosso nello spiegare, sta nel fatto che su quella superficie limitata, su quel francobollo che abbiamo chiamato quadro, viene rappresentato un millennio di storia.
Piaccia o non piaccia, e di questo poco me ne curo, possiamo dire di aver fatto una sintesi per mezzo di un ricco e concentrato svolgimento? A mio parere assolutamente sì. Il riferimento non è casuale, in quanto ci riporta tutti noi, che siamo qui in piacevole compagnia, ad ascoltare e osservare un povero, povero in tutti sensi, matto, matto in tutti i sensi, che con alcuni giri di parole e concetti ci riporta nuovamente ad osservare e comprendere ora, e mi auguro meglio di prima, questo lavoro. E aggiungo, con la speranza di essere riuscito a portarvi dentro, per capirne meglio il significato e l'importanza di questa ispirazione.
Domenica 28 ottobre, il lavoro è ormai giunto al capolinea. Ancora qualche ritocco, qualche aggiustamento e poi si certifica il tutto. Più lo osservo e più lo osserverei, in pratica non gli toglierei gli occhi di dosso, tanto mi dice, e tanto mi fa pensare. E' sicuramente molto soggettivo tutto questo (ogni scarrafone è bello a mamma soja), ma quando lo guardo, io penso a Palermo, all'estate di quest'anno, al breve periodo del mio soggiorno. E talmente mi è entrata così tanto dentro, Palermo, che mi sembra di averci passato l'estate intera. In poche parole, di Palermo, dopo averci fatto sesso, me ne sono innamorato.
A parte queste considerazioni, comunque vere e sentite, quello che più mi stupisce e convince di questo lavoro ogni volta che lo guardo, è, a dire il vero, il parallelismo che mi porta inevitabilmente a paragonarlo, forse perché coinvolto in prima persona, alla pittura tonale veneta.
Davvero, più lo guardo e più, a sinistra, ci vedo il mistero dei ritratti di Giorgione, i misteri delle sue composizioni, un grattacapo infinito per tutti. Continuando verso destra non posso non pensare all'elegante e roboante energia che si sprigiona dalle nobili, ma sempre dal volto umano, rappresentazioni di Tiziano. Per ultimo, ma primo per ordine di grandezza (guai a chi me lo tocca), ci vedo la sapienza compositiva e architettonica di un grande maestro, un gigante del colore, immerso dentro una forza della natura altrettanto gigante e roboante. Una forza che non si riesce mai a domare, ma che è sempre lì presente, e che vorticosamente prevale su tutto e su tutti, con la sua luce magica, a volte sinistra. Una forza che accompagna la vita, in quanto tale, dall'alba al tramonto, verso la sua fatale consumazione, avendogli prima svelato i misteri che la vita stessa, si porta da sempre appresso. Misteri visibili a pochi, in quanto avvolti da una luce sempre protagonista e astratta. Apriamo un capitolo sul significato dell'espressione latina “ante litteram”, applicato al modernismo tintorettiano? No, non ora...
“Il est l’absolue antithèse de Titien. La nouveauté de ce que propose le Tintoret tient à la liberté extraordinaire avec laquelle il traite le vocabulaire maniériste romain et émilien alors diffusé à Venise et à son michélangelisme nettement affirmé”.
A Jacopo Robusti va tutta la mia stima e tutto il mio affetto. Il Buonarroti, a Jacopo, in pittura avrebbe potuto fargli solo da garzone, un garzone nemmeno tanto sveglio. Avrebbe però potuto fargli da maestro nel disegno, se non fosse che Jacopo Robusti, il disegno l'avesse dimenticato in bottega da bambino, trasformando la matita in pennello, e il pennello in matita. Che altro dire di un gigante dal nome Tintoretto(?!). Del Veronese poi, non me ne curo, non ha mai goduto della mia stima, un classico del “vorrei ma non posso”, condannato a vivere schiacciato da due grandi e inarrivabili maestri, Tiziano e Tintoretto. Paolo Caliari, se fosse ancora vivo, si sarebbe prestato di sicuro ad affrescare anche i soffitti delle case abusive dei Casamonica, in quel contesto l'avrei visto a suo agio.
Durante il mio breve soggiorno a Palermo, ho visitato il palazzo Abatellis, che custodisce poco di buono, ma in quel poco c'è un gioiello, un vero tesoro dell'arte, la madonna di Antonello da Messina. Solo per questo gioiello la visita è obbligatoria, come obbligatoria è la sosta di almeno mezz'ora davanti a questo mito dell'arte. Più lo osservi e più lo osserveresti, tanto ti parla questa madonna siciliana, rimanendo avvolta, perplessa, con pudore e stupore evanescente, nel suo silenzio, mentre si guarda e riflette, da donna, dentro il suo specchio. Ti parla in dialetto, ma conosce perfettamente anche l'italiano moderno, tanto sono moderne queste due entità fuse, magistralmente, tra loro .
Il volto è quello di una diva del cinema, e comunque abituata a stare davanti alla macchina da presa. Pelle morbida e ben curata, resa lucida da una crema anti-age all'olio di mandorle. Se vi accostate per bene, sentirete ancora il profumo che emana questo corpo, sempre vivo e caldo. Una donna che ha deciso di posare, poco convinta, travestita da madonna. Una madonna non più in giovane età, una madonna che ha già partorito altre volte, ecco dove sta la modernità e l'attualità dentro questo gioiello del passato che ancora respira e profuma di buono.
Meno teologia e filosofia in Antonello, e più passione carnale per la sua madonna ideale. Un amore e una passione, verso questa donna di Sicilia, non più solo cortese. Questo è un esempio lampante di passato che vive ancora nel presente, un passato sempre presente.
Davanti a questo lavoro di Antonello, mi sono permesso di fare una considerazione, vale a dire, che il molto di buono che ho trovato dentro questo ritratto, sta tutto nella metà superiore, dal punto in cui si toccano le due estremità del velo, formando quel bellissimo triangolo che lascia intravedere la veste di sotto, o sottoveste, mani escluse, da lì in su. La parte sottostante la trovo poco convincente, anche un po' pasticciata, poco curata, come se Antonello avesse voluto finirla in fretta, e con poco entusiasmo, incartandosi tra le pieghe del velo, e delle mani, più verosimili per un manichino, che a quelle di una donna.
Da Messina a Venezia, dalla Sicilia al Veneto, un ponte per la pittura – cultura -, mai crollato e ancora ben saldo al suo posto. La divina astrazione resa magica e unica dalla luce dorata che soffia da Oriente, e che si respira ancora oggi facendo su e giù per questo ponte aereo, da Verona a Palermo.
Non so se l'interesse profondo che nutro per il passato sia solo una scolastica passione mai esaurita, mai appagata, oppure una vera e propria voglia di sfida che, da uomo del mio tempo, vuole misurarsi e scontrarsi con i grandi del passato, amorevolmente e amichevolmente intendo, sicuro di portare a casa ancora qualcosa di buono e tipicamente nostrano da mostrare. Questo non lo so, ancora non l'ho capito. Sono peraltro convinto che quello che sto facendo non sia altro che la scoperta di nuove vene aurifere, o di vecchie non del tutto esaurite, ancora da scavare e con molto di buono da tirar fuori. I mezzi sono nuovi, le conoscenze sono aggiornate e sono note tutte le tecniche fin qui usate, sia quelle buone, sia le facili e insopportabili scappatoie, ma la madre terra è sempre quella, gli enigmi, i misteri dell'uomo sono sempre gli stessi, e prima di mettere la parola fine sulla pittura – colore -, io mi guardo attorno meglio e, fiducioso e convinto, continuo a cercare. Quando si è bucata la tela, si è bruciata la tela, quando sulla tela si è steso uniformemente un solo colore e la monocromia e la povera spazzatura sembrano aver decretato la morte della pittura, e con la morte la sua ingannevole resurrezione, ecco che la pittura si rivolge altrove, con la speranza di trovare qualcuno, magari veneto, che sappia darle un nuovo soffio di vita, una pennellata di “Luce”.
Vi chiederete il perché di questa ossessione per “La luce rosa” dentro un contesto così complesso ed eterogeneo, dove, e ve ne do atto, questa “Luce rosa” c'entra solo in quanto presente simbolicamente con il triangolo rosa. Un simbolo importante e intriso di storia, peraltro una storia ancora attuale. Ebbene, la risposta è semplicissima, banale perfino, in quanto la “Luce rosa” sono io. Ed essendo io l'autore, il colpevole di tutto, io sono e sarò per sempre una “Luce rosa”, anche per tutti coloro che questa Luce l'hanno persa per sempre. Più semplice di così, davvero, si muore! E' proprio vero, a volte le cose semplici sono le più difficili da trovare e da capire.
In fondo, nella vita, per essere felici ci basta l’essenziale. Io, ora, sono l'essenziale. Un essenziale complicato e un po' contorto, per ora, ma pur sempre essenziale.
Oggi vige una forma di cleptomania diffusa dell’arte contemporanea, capace di adattarsi ai richiami di nuove Sirene che non provengono più solo dal mare, ma da nuove e lontane terre e culture a noi ancora semisconosciute. E il richiamo di queste nuove Sirene non è più fatto solo di suoni e canti soavi irresistibili, ma da citazioni famose o pratiche ampiamente usate e abusate nel ristretto e stucchevole sistema di un'arte globalizzata. Si fatica molto a percepire una vera e forte personalità tra le opere d'arte, seppure sembra, ad un primo e ingannevole sguardo, che ci sia al loro interno un filo conduttore che le giustifichi. Quel che resta, per lo più, è un preparato, spesso raffazzonato e ruffiano, di artigianato non qualificato dell’arte contemporanea. Oggi tutto potrebbe essere, e quindi, in definitiva, niente o poco è.
Se alla fine di questo percorso, non si fosse ancora capito, ribadisco che questo lavoro, pur mantenendo fede a tutte le motivazioni già ampiamente spiegate, che mi hanno spinto a dedicarmi alle varie interpretazioni sul tema, e che ribadisco, onorano il sacrificio e la memoria di ciò che ha rappresentato nella storia recente il triangolo rosa, e non solo quello rosa, è allo stesso tempo un doveroso omaggio fatto alla magnifica città di Palermo. Una città che per mille motivi, non appartiene solo all'Italia, ma al mondo intero, tante sono le sue variabili che, ancora oggi molto evidenti, trasudano di storia e culture diverse. Per questo, Palermo, è a tutti gli effetti la città di tutti. Se solo fosse dotata di infrastrutture efficienti e permanenti per meglio collegarla al resto del mondo, più curata e meglio tenuta, e fosse dotata di maggior senso civico, nel senso di maggior consapevolezza di far parte di un sistema globale e sociale in cui sono il rispetto delle regole e il rigetto della loro negazione, che regolano il rapporto tra cittadino e istituzioni, Palermo diventerebbe la città ideale per viverci, e viverci bene, per lavorare, e lavorarci bene. Ma tant'è, Palermo è diventata quello che è grazie ad un'unità mai compiuta, un'unità forzata e costretta, come si costringe una donna di Sicilia a posare travestita da madonna.
Tutto questo mi ricorda una canzone meravigliosa e struggente allo stesso tempo, ambivalente, come la madonna di Antonello, una canzone che mi ha fatto compagnia per tutto il resto dell'estate. Una canzone triste, ma se la capisci e la ami, ti trascina amorevolmente dentro la terra di Sicilia, come è successo a me. Questa canzone narra di quando arrivarono molte navi a Palermo e da queste navi sbarcarono molti pirati con le facce d'inferno, pirati che rubarono il sole – luce -, rubarono le arance – oro -, e strapparono gli occhi alle donne – umiliazione -, così la Sicilia rimase al buio, e al buio, la Sicilia – naturalmente -, piange. Canzone che sentivo cantare verso sera all'incrocio-piazza dei Quattro Canti, conosciuta anche come Ottagono del Sole, me la sono fatta incartare questa canzone, e l'ho portata con me a Verona. Mi ha fatto compagnia per la lavorazione di questa Luce, una Luce non solo rosa, una Luce non solo mia.
Ora a Palermo e dintorni non sbarcano più i pirati, è sbarcata una mafiosa globalizzazione industriale che sta distruggendo tutto e tutti, e sta facendo morire con altrettanta umiliazione, l'orgoglio dell'amata popolazione di Sicilia. Altro che pirati, oggi, molto peggio dei pirati, sbarcano le lobby dell'industria chimica che ha già avvelenato tutto quello che si poteva avvelenare, uomini e donne di Sicilia compresi.
Finché Palermo non tornerà a riappropriarsi della propria luce dorata e splendente, resterà purtroppo solo una meta temporanea, una bella meta, per trascorre una bella vacanza. Ma quanto poco sale in zucca hanno i nostri miopi e mafiosi amministratori, nel non capire quanto sia grande il potenziale che ancora ha, e che potrebbe ancora spendere, questa meravigliosa e unica città? Investite nella cultura, stupidi, ignoranti e mafiosi amministratori che non siete altro, quella è la vera inesauribile risorsa pulita per la Sicilia e l'Italia intera.
Con la cultura si mangia, eccome se si mangia, ci mangia la Sicilia, ci mangia l'Italia, e ancora ne avanza, per chi ha veramente fame e appetito insaziabile di prodotti puliti e genuini.
Per fortuna c'è l'arte che corre ai ripari, quando può, quando c'è, e mette pace in questo povero mondo tenuto in piedi da troppe cose davvero inutili e dannose financo, da troppa ipocrisia, e sempre troppo poca voglia di cultura. Dovremmo essere tutti un po' più puri e coscientemente essenziali, soprattutto chi vive ancora solo di riflessi e abbagli dorati, belli sì, ma non più attuali, magari taroccati, perché anche l'oro, quando non è consacrato, risulta inutile e dannoso alla salute.
Comunque, al di là di tutto, sono sicuro che vi sarete chiesti il perché di alcune mie partecipazioni a questo gioco al massacro, con tutti questi premi in ballo che si distribuiscono ai cani e ai porci, senza distinzione di sesso, di razza, e di religione.
Non so se io sono più cane o più porco, ma detto questo, quello che so è che sono consapevole di essere un artista che si è fatto le ossa studiando tanto, lavorando tanto, ascoltando e imparando tanto, dai veri maestri d'arte e dai bravi professori. Io sono un povero artigiano che desidera solo fare una buona pittura, nient'altro. Mentre quando ti buttano sul pavimento di un palco, di una galleria o di un palazzo storico, cibo per animali – i premi -, e tutti si azzannano per andare a raccoglierlo, inevitabilmente ringhiandosi contro e sbranandosi l'un l'altro (scenario ottimale per una nuova commedia shakespeariana), allora capisci che quel cibo meglio sarebbe non mangiarlo. Io cerco di mangiarne poco, il meno possibile, cerco di scegliere sempre il boccone migliore, ma a volte, quando la fame è tanta, e la mente è annebbiata da oppiacee lusinghe, beh, ti ci butti, con la speranza di aver fatto la cosa giusta. Tutto qui, non si può dire sempre di no, a volte, naso e culo tappato, bisogna dire anche qualche sì.
A definitiva conclusione di questa vacanza palermitana, vi ricordo ancora una volta l'importanza della componente ludica, che in questi ultimi lavori, scevri di rabbia e risentimento, avulsi di personali emotività e paranoie retrospettive, è ampiamente e allegramente presente. Per questo, dopo aver troppo parlato, anch'io eiaculo poeticamente, non polemicamente, di gioia.
Mentre vi saluto, sono già proiettato verso la prossima Luce, che, guarda caso, sta già muovendo i primi passi, partendo ancora una volta da qui, da questo racconto.
Si fa un lavoro, e da questo ne nasce uno nuovo. Tutto si lega, tutto si spiega, tutto torna, e tutto si riconduce a te. Io parlo come mangio, sempre di corsa e senza apparecchiare la tavola, ma dipingo col cervello sempre acceso, rispettando gli insegnamenti del galateo.