Come vi dicevo quando ci siamo lasciati l'ultima volta, questa luce si è accesa nel momento in cui, occupandoci del precedente lavoro, siamo andati a scomodare il grande Tintoretto e la pittura tonale, genere che ha caratterizzato tutta l'arte veneta, e non solo, dal XV sec. fino, nel mio caso, ad oggi. Infatti, il fascino e la indiscussa modernità di questa pittura in particolare, esercita su di me un magnetismo continuo, che a mala pena riesco a tenere a freno. Vi confesso che in questi ultimi lavori, in seguito non lo so perché, se vi ricordate, anch'io vorrei, prima o poi, spiccare il volo ed allontanarmi da tutto e da tutti definitivamente, mi sono volutamente lasciato cullare tra le braccia dei suoi più grandi interpreti. Riguardando alcuni teleri del grande genio solitario, scorbutico e spigoloso come il sottoscritto, mi si è riaperto un nuovo mondo, che già tanti del sommo pittore se ne erano aperti in precedenza. Inutile volerli elencare per farne una graduatoria, tanti sono e tanti sono belli l'uno più dell'altro, rispetto ad altri suoi ancora più belli. Quale migliore insegnante, maestro, avrei mai potuto desiderare di avere in Accademia nel mio corso di Scenografia, se non Jacopo Robusti. Se penso alle centinaia di silhouette disegnate e dipinte per apprendere l'arte del fare e risolvere velocemente uno scheletro o sagoma, per poi, altrettanto velocemente coprirlo per vestirlo, non posso non mordermi le mani nel pensare che se solo avessi avuto come insegnante il Tintoretto, anche solo per un breve periodo, anche solo come supplente, forse, avrei imparato meglio e più in fretta anch'io.
Invece, questa fortuna l'ebbe Domínikos Theotokópoulos, meglio conosciuto con lo pseudonimo di El Greco, che dal maestro veneziano, soprattutto da lui, apprese il bel disegnare dipingendo corpi sinuosi e allungati, salvo poi caricarli di troppo “sfacciato” colore, destabilizzando il mondo di allora, anticipando il mondo nostro. Così facendo, quei corpi, invece di volare come avrebbe voluto vederli volare Tintoretto, Chagall o il geniale mio coetaneo Basquiat, si appesantirono di carne, umanizzandosi un po' troppo, per la buona pace del sommo Tiziano, del materico e sanguigno Picasso e di un De Chirico sempre troppo amorevolmente e pesantemente greco. Matisse, invece, da El Greco si posiziona a metà strada. Per il tormentato e gentile Matisse, i corpi restano sì spiaccicati a terra, ma si capisce bene che tenderebbero a sollevarsi da essa, per spiccare propedeutici voli pindarici, più come moderni tappeti o manifesti, che come corpi veri, tanto sono leggeri. Al tormentato e povero Modigliani non interessa tutto questo, al pittore livornese interessano le belle maniere che mascherano profonde sofferenze. Da El Greco, Amedeo, le belle maniere le ha estrapolate nel migliore dei modi, rendendo fotografiche le pose a mezzo busto, le stesse che El Greco avrebbe dipinto per intero.
I corpi di Tintoretto non sono fatti di pietra, non sono corpi pesanti che a mala pena stanno dritti in piedi, e anche quando stanno dritti in piedi, sembra che stiano seduti o appoggiati ad un supporto che li “sopporta”. Ogni riferimento al grande scultore fiorentino è puramente casuale. I corpi del grande mastro veneziano sono l'essenza della fisicità corporea, non proprio corpi fatti di carne, mai ben rimpolpati, non ce n'è bisogno, comunque sempre molto ben pennellati, fluttuanti liberamente e, lasciatemelo dire, allegramente dentro e fuori spazi scenografici metafisici ( Andrea Palladio ), dove ai corpi si assegnano, in barba ai copioni, i posti che loro stessi, in totale libertà, intendono assegnarsi. I corpi di Tintoretto e di El Greco sono delle comparse in continuo movimento, figure che stanno nel dramma con allegria e disinvoltura, perché a loro agio, giocano tra loro, si divertono, e si scambiano i ruoli senza che nessuno di noi se ne accorga. Comparse eteree, più che corpi veri, sempre ben orchestrati, lasciati liberi di muoversi dentro e fuori uno spazio immaginario, quasi sempre immaginario. Anche quando si configura una bolgia incontrollata, si capisce che dietro c'è una regia superlativa che sa il fatto suo. Shakespeare arriverà a breve e metterà per iscritto ciò che Tintoretto aveva ancor prima messo col pennello. Il buon fine, lo scopo, l'insegnamento educativo, per mezzo di un gioco, di una piacevole, a volte frivola, nel senso di effimera, storia, nel senso di narrazione. Racconto e dramma pennellato, racconto e dramma scritto, mai privi di divertimento per gli autori, in entrambi i casi. Tragico a vedersi, forse, in parte, ma solo apparentemente, perché il fine docet semper, seppur tragico, è sempre dotto e superlativo. In entrambi i casi, Tintoretto e Shakespeare hanno saputo declinare i tanti conflitti filosofici sull'esistenza umana, per mezzo di un pennello e di una penna d'oca. Io, davanti ad entrambi, mi inchino e cammino in ginocchio. Quanto di moderno c'è nel disegno pittorico del grande Tintoretto, e quanta furbizia nel completare e consegnare in tempo tutti quei teleri, grandi più delle vele delle navi più grandi. Per capirlo bisogna averlo provato lavorando, ancor prima di averlo studiato e basta. Abbiamo aspettato 250 anni per trovare qualcuno, si fa per dire, che riprendesse le fila del discorso iniziato da Jacopo Robusti, espandendolo fino a farlo esplodere, disintegrandolo quasi definitivamente. Con Monet tutto si compie, tutto si collega e si ricongiunge, affinché tutto ricominci a vivere e a vibrare. Stare al passo coi tempi, non più chiusi dentro sontuosi e inaccessibili atelier, a metà del IX° sec. voleva dire andare di pari passo con la nuova realtà sociale e industriale dell'epoca. Movimento, infatti, è la parola magica per definire tutto ciò che stava accadendo a metà dell'ottocento. Da non confondere col Movimento Futurista, più diabolico e decisamente meno poetico di quello impressionista. Sviluppo industriale, sviluppo economico, sviluppo sociale e culturale insieme. Sviluppo di nuove ideologie e filosofie, oggi in parte già morte e da poco sepolte, ahimé ( Saint-Simon, Karl Marx ), sviluppo e benessere, sviluppo che muove ancestrali ostilità e desta l'orgoglio dei popoli. Sviluppo che risveglia ed esalta al massimo il fiorire di tutte le arti, e che, una volta iniziato, per un secolo e mezzo darà il meglio e il peggio di sé. Noi siamo qui per raccontare e valorizzare il meglio, nel nostro caso le arti visive, non certo per ripercorrere le nefandezze accadute. Anche se il titolo di questi miei lavori, da queste nefandezze, trae lo spunto; una sorta di rivincita, mettiamola così. Ebbene, tutto questo fermento, movimento e rimescolamento interiore, Tintoretto l'aveva già intuito e fatto suo molto tempo prima. Solo che al tempo suo, il mondo, il pubblico colto e quello non colto, che mai corrono entrambi, per carità di dio, al passo col genio di pochi, non era ancora pronto. Di norma, “gli altri” non sono mai pronti. Non lo erano nemmeno al tempo di Leonardo e Michelangelo, di Caravaggio, di Monet, di Van Gogh, di Modigliani, di Oscar Wilde e di Pasolini, solo per citarne alcuni, e Karl Marx, mai capito fino in fondo, nemmeno oggi, sempre frainteso e osteggiato, ma di una intelligente e profetica lungimiranza da fare invidia ai più famosi profeti biblici. Il pubblico non è mai pronto, la gran parte non lo è, come non è mai pronta la gran parte della critica ufficiale. A dirla tutta fino in fondo, noi italiani crediamo ancora che parlare di Rinascimento, tanto per fare un esempio, voglia dire parlare solo ed esclusivamente dell'Italia. Per il resto, tutto quanto successo al di fuori di quest'area geografica, è stato solo un tentativo di avvicinarsi a quello che nelle nostre regioni è nato e maturato. Questo ci insegnavano erroneamente a scuola, chissà oggi cosa si insegna dentro le aule scolastiche. Le tre regioni centrali dell'Italia erano, e forse ancora sono, l'area che consideriamo propria del vero Rinascimento italiano. E questa affermazione, di base, è una cosa che mi ha sempre fatto girare le palle a mille. Quanto poco si insegna a scuola sulla “simultaneità”, mentre uno fa una cosa qui, in un'altra area geografica ci sono altri che ne stanno facendo altre, belle e interessanti altrettanto. Quanto poco, o per niente, si insegna a scuola che il Piero della Francesca del settentrione, che al pari o forse più, del più noto Piero toscano, dipingeva la stupenda e rinascimentale fino al midollo, Pala di San Zeno (trittico solo per modo di dire, tanto è tutto unito in un unico insieme questo dipinto), o il più rinascimentale dei San Sebastiano, o l'affresco della Camera degli sposi di Mantova. Il Piero originale, stava ancora facendo i conti con la matematica e non riusciva, o forse non gli interessava, uscire fuori all'aperto per respirare un po' d'aria fresca e naturale. Questo Piero nordico, il nostro Piero della Francesca, già lombardo-veneto a tutti gli effetti, si chiamava Andrea Mantegna. Ma ancor oggi, se parliamo di Rinascimento italiano, sempre nel Centro Italia si va a parare, e il Veneto, sempre terra di frontiera e un po' dimenticata, rimane. Eppure, a Firenze, si può benissimo contrapporre Mantova, la Firenze del Nord, la città che, come Firenze e al pari di Firenze, ha rappresentato il meglio del Rinascimento italiano. Isabella d'Este fu l'unica nobildonna italiana ad avere un suo studiolo, a riprova della sua fama per la cultura del Rinascimento, che preferiva gli interessi intellettuali e artistici a uno stile di vita edonistico e papalino, al divertissement inteso da Pascal (deviazione e allontanamento). Mantova ci ha, perfino, lasciato una memorabile testimonianza del lato considerato “decadente” del Rinascimento, la parte negativa e meno interessante del Rinascimento, altra cavolata che ai miei tempi si insegnava a scuola, il Manierismo. Ma non è finita qui, se pensate che in pochissimi a scuola hanno appreso che, mentre in Italia, all'ombra dei suoi mille campanili nascevano e fiorivano i nostri “mille rinascimenti”, nel Nord Europa, in Germania e nelle Fiandre ancor più, nasceva e fioriva un Rinascimento che solo il miope Vasari non vedeva e non considerava. Noi italiani, chi più chi meno, siamo tutti orgogliosamente e ostinatamente “vasariani”, amiamo troppo i nostri orti e campanili e, purtroppo, ancora oggi non conosciamo o sappiamo troppo poco degli orti e dei campanili altrui, altrettanto bellissimi e degni di nota. Orti e campanili che potrebbero perfino adombrare i nostri, e che non sempre dai nostri hanno copiato, anzi, ai nostri hanno molto insegnato. Sto parlando del Rinascimento del Nord Europa. Un nome su tutti, compresi noi italiani, è Jan van Eyck (1390 – 1441 a Bruges). Tutti noi dimentichiamo che al pari del nostro, ritenuto l'unico e il migliore Rinascimento, nel Nord Europa fioriva un altro Rinascimento, meno chiesastico, più laico e più vero, nel senso di più naturale, il Rinascimento nordico. Vasari, sì proprio lui, il mediocre, l'ha praticamente snobbato, trascurandolo. Eppure Vasari non era un ignorante in materia, e allora come mai ha trascurato un grande del rinascimento europeo come Van Eyck? Alla National Gallery di Londra, ci si trova davanti ad una lectio magistralis sul Rinascimento Europeo. Da un lato trovate Van Eyck che ad olio dipingeva il modernissimo interno domestico con I coniugi Arnolfini, ricchi mercanti toscani trasferiti nelle Fiandre, a Bruges, e documentati con attenta e meticolosa precisione fotografica che ne risalta le specificità di ogni singolo oggetto, costume, personaggio. Dall'altro trovate una tempera, sempre su tavola, Il Battesimo di Cristo di Piero della Francesca. Da un lato il ritratto di una coppia di ricchi mercanti già espatriati all'estero per affari, probabilmente già allora senza passaporto o carta d'identità, ma con tanti soldi da esportare e investire, dall'altro la celebrazione mitologica di una narrazione evangelico-cristiana con un contorno intriso di ermetismo teologico e tanta matematica, che celebra l'incontro e la pacificazione tra chiese diverse. In questo, con ancora l'oro bizantino che si presta sempre molto bene, ne so qualcosa anch'io, per decorare il mistero di una fede, il tutto condito da un paesaggio più metaforico che metafisico, che intende celebrare Gerusalemme, documentando, forse, il suo Borgo toscano, forse l'orto di Piero. Molto in voga in Italia dipingere la casa di Dio prendendo a prestito la casa del vicino, o la propria, soprattutto se molto ricca. Ebbene, Jan van Eyck dipinge ad olio questo spaccato di attualità storica vera, mentre Piero della Francesca dipinge a tempera questa tavola che potrebbe essere stata affrescata e staccata dal muro di una cappella di una chiesa o di uno dei tanti monasteri che in quel periodo nascevano come funghi. Da un lato il business, il commercio, la ricchezza ostentata con tanto di lussuose e costose pellicce, la cronaca in diretta di quel momento particolare. Dall'altro una mirabile composizione tutta mirata all'esercizio spirituale, prospettive sceniche ottenute per piani sovrapposti e di calcoli matematici. Umanizzata, si fa per dire, dalla messa in scena di una narrazione evangelica fantascientifica e dal sapore tutto neoplatonico. La narrazione storica, la verità documentata e fotografata, la modernità pura, nuda e cruda, senza veli e ipocrisie, dipinta ad olio da Van Eyck nel 1434. Una documentazione storica quella di Van Eyck, che spianerà la strada a una lunga serie di artisti fiamminghi, e che troverà in Jan Vermeer uno dei suoi rappresentanti più straordinari e raffinati in assoluto. Dall'altra, la narrazione figurativa, intesa come interpretazione filosofica di una fede, al servizio di una chiesa, checché si voglia rappresentare l'unione pacificatrice tra due mondi, quello greco e quello latino. Il tutto composto dentro uno schema teatrale, fatto di quinte e fondali dipinti, geometricamente e matematicamente molto ben ordinati, dipinto a tempera da Piero della Francesca nel 1445 ca. Una narrazione molto poco storica e ancora molto poco plastica, anche se scenograficamente molto ben organizzata e suddivisa per piani. Questo sì, paradossalmente, ma mica poi tanto, visto con i miei occhi di adesso, modernamente impeccabile, e, sempre paradossalmente e sempre per me, oggi, ancor più interessante, perché ha mantenuto intatto e fresco, oltre al mistero, la sua mai spenta attualità compositiva. In Piero della Francesca, e non solo, i “nostri” risolvono la questione della tridimensionalità enfatizzando la prospettiva per mezzo di troppa matematica e geometria, fede inclusa, per mezzo del disegno, ancor prima di enfatizzare n'importe quoi con il colore. Mentre in Italia il Rinascimento prendeva corpo e muoveva i primi veri passi, nel Nord Europa il Rinascimento già si esauriva e superava se stesso. Ora, queste due opere sono così antitetiche l'una dall'altra, che fare paragoni spiccioli, non solo serve a poco o niente, ma rischia di attribuire indebitamente meriti all'uno, togliendone, indebitamente, all'altro. Se prestate però attenzione a ciò che ho detto, capirete che le cose non stanno proprio così come sembra. Però mi interessava togliermi questo chiodo che avevo piantato in testa da troppo tempo, la simultaneità, e ora che sto meglio, non mi fermo e vado avanti. Analizziamo allora altri due capolavori, uno attribuito al primo Rinascimento italiano e l'altro, tra i primi in ordine di apparizione, non sto dicendo di grandezza, di proprietà del Rinascimento nordico, fiammingo. Eh sì, ancora lui, ancora il grandissimo Jan van Eyck con questa stupefacente Madonna del canonico van der Paele, un dipinto ad olio su tavola, datato 1434 e conservato in un museo di Bruges. Per contro, mi vengono subito alla mente altre due, altrettanto straordinarie opere, la prima è la pala di San Zeno a Verona di Andrea Mantegna, e la seconda, la pala di Castelfranco Veneto del nostro grande e misterioso Giorgione. La pala del Mantegna, tempera su tavola, è datata 1456, una delle prime, se non la prima pala d'altare rinascimentale del Nord Italia, di assoluto valore artistico, che ha fatto scuola per questo genere di pale rinascimentali. Anche qui assistiamo ad una lezione di matematica e geometria pura, dove è presente tanto di umanesimo e poco di umano. Ricordate, l'Italia terra di santi, poeti ecc. ecc. Mi piace questa metafora che senza volerlo mi torna utile per far vedere come, con questa riflessione noi assistiamo alla scena dall'esterno, seduti in classe, con la cattedra molto lontana dai banchi degli alunni, tanto lontana da non poter udire ciò che dice il professore. Noi, presenti a questa lezione, possiamo solo guardare, immaginare, mai partecipare. Qui, dentro la basilica di San Zeno, noi siamo solo spettatori che assistono a questo bellissimo spettacolo, da turisti di passaggio, mai per caso. Alla stessa maniera, da turisti di passaggio, ci poniamo davanti alla magnifica, stupenda perché magistralmente eseguita, pala di Castelfranco, olio su tavola, datata, prestate bene attenzione,1503. Ora capite bene che non sempre siamo stati noi italiani o noi veneti a fare cose belle prima di altri. Spesso e volentieri sono stati gli altri, sì gli altri, quelli di culture diverse dalla nostra, a fare cose molto belle o altrettanto belle, spesso, molto prima di noi. Torniamo dal nostro geniale Van Eyck e la sua pala di Bruges. Riuscite a vedere quanto è già presente qui dentro di tutto quello che da noi non era ancora stato concepito e fatto, stiamo parlando del 1434, ricordate? I Bellini, Antonello da Messina, Piero della Francesca, Masaccio, arrivano dopo, eh sì, arrivano dopo. Dentro la pala di Bruges, io vedo già tutto il Rinascimento concepito e svolto e risolto pure. Vedo già le finestre ricamate e con la luce che entra da queste di Jan Vermeer. Vedo le perle sul bordo del manto della Madonna che rivedrò due secoli dopo, appese ai lobi delle orecchie di tante belle donne, mai madonne, di Vermeer. Vedo anche, nello spazio retrostante il trono con la Madonna, sulla destra, attraverso l'arco, una lampada che illumina un tavolo con dei poveri contadini, ricchi di dignità, che stanno mangiando le patate, frutto del loro lavoro. Insomma, vedo uno spazio dentro al quale è possibile entrare, trovare un posto, un angolo in cui sedersi e partecipare. Uno spazio da condividere, non solo da guardare restando fuori, esclusi. Uno spazio dove è possibile materializzare tanto altro, perché lo spazio di Van Eyck è uno spazio funzionale. La luce che entra dalla finestre di Van Eyck è una luce calda e reale, la luce del sole, non è una luce divina. La luce di Jan van Eyk è la stessa luce che Vermeer farà entrare dalle sue finestre per scaldare e mettere in risalto i volti, i tessuti e gli specchi, come aveva già fatto in precedenza Van Eyck, che con la sua luce scaldava la verde lana dell'abito della prima moglie di Giovanni Arnolfini. Già allora si parlava di prima e di seconda moglie; che mito il mercante lucchese. Memorizziamo questa pala di Bruges, facciamo un salto in avanti di 40 anni e trasferiamoci a Castelfranco Veneto. Entriamo nel Duomo, percorriamo la navata di destra, arriviamo in fondo ed entriamo in questa piccola cappella, giriamo lo sguardo a destra e vediamo un capolavoro che a me ha sempre fatto venire in mente il miglior epilogo del nostro Rinascimento italiano, ma forse è più opportuno ridimensionare questo mio slancio, un po' di parte, e fermiamoci al Nord Italia. La pala del Giorgione, del 1503, un capolavoro assoluto di scuola rinascimentale tutta italiana, tutta classica e tutta religiosa. Altro che spazio accessibile, accessibile sì, forse, ma solo per le menti allenate. Guardare, leggere, ammirare, studiare, capire, ma per favore non toccare, non entrare, statene fuori e girate al largo; questo luogo non fa per voi. Ve li immaginate dei poveri contadini seduti sul muretto dietro il trono, o seduti sul prato di questo paesaggio a mangiare patate con gli abiti e le mani sporche di terra e le vesti bagnate di sudore? Mio Dio, che schifo, non sia mai! Io l'ammiro anche da fuori e non per questo ritengo questo capolavoro meno interessante di quello di Van Eyck, tutt'altro, ma quello che voglio dire è che se non impariamo a fare i paragoni tra Tizio e Caio (Saper Vedere), non potremmo mai capire l'arte nel suo insieme, nel suo divenire, nel suo copiarsi e ripetersi anche. Oddio, cos'ho detto? Tranquilli, e comunque non era uno scherzo, lo penso davvero. Giorgione ha copiato van Eyck, Mantegna ha copiato Antonello da Messina e Giovanni Bellini, anche Albrecht Durer ha copiato Giovanni Bellini, e lo ammirava e stimava immensamente. Vermeer ha copiato Van Eyck, Rembrandt ha copiato Caravaggio, El Greco ha copiato Tintoretto, Velaszquez copia tutta l'Italia, compreso Tintoretto. Van Gogh ha copiato Millet e Corot, Picasso ha copiato Cezanne e Matisse, Raffaello ha copiato Michelangelo. Tanto del pathos rinascimentale e post rinascimentale italiano, Barocco compreso, non è forse figlio di tanta statuaria ellenistica, di recente scoperta (vedi Laoconte). La Grecia copia l'oriente, Roma copia la Grecia, l'Europa copia l'Africa e l'Asia, e l'America copia l'Europa e l'architettura giapponese (Wright). Ora l'Europa copia l'America, in attesa che il Veneto ritorni a fare scuola. Potete dare tutte le letture che volete a questo banale concetto, espresso davvero rozzamente, e me ne scuso. Resta il fatto che copiare, inteso dai non addetti ai lavori ha sempre avuto stupidamente un'accezione negativa, mentre per gli artisti intelligenti e capaci è sempre stato inteso come indispensabile tappa di apprendimento, come vera Scuola allo stato puro. Copiare solo e sempre per il gusto di copiare dimostra la totale assenza di talento, ma quando copiare diventa strumento di apprendimento e approfondimento, con la finalità di trovare la propria strada, allora questa diventa la scorciatoia più intelligente che ci sia. Molto altro si potrebbe dire o ipotizzare sui tanti bravi artisti che si sono formati “alle spalle” e “sulle spalle” di altri che li hanno preceduti. Questo tema meriterebbe una più approfondita ricerca, per leggere dentro le vite degli artisti non solo guardando e interpretando le loro opere, ma frugando tra le pieghe delle loro lenzuola, passeggiando con loro in silenzio e osservando tutto quello che loro osservano e che la gente comune scarta e non vede, perché, altrettanto stupidamente, non considera o snobba. Un artista vero vive tutto da artista vero, inutile tentare di volerlo leggere seguendo solo le regole della grammatica ufficiale. Inutile volerlo comprendere con la mentalità cieca e prevenuta, figlia di una supponente opinione comune. Inutile criticare un vero artista, lui sarà sempre più avanti di tutti voi, lui si è già criticato da solo molto tempo prima che arrivaste voi. Quando voi dite di aver capito, l'artista vero ha già capito da un pezzo, e non è più lì con voi, è già volato via da un'altra parte. Lì con voi, casomai, resta il suo corpo, ma di un artista vero, non è il suo corpo che conta, che vale, è la sua inarrivabile, incomprensibile e affascinante mente. E catturare la mente di un vero artista per tenerla ferma lì con voi, non è impresa da poco, non è impresa che riesce a tutti. Tormento e solitudine, per un artista vero sono il prezzo da pagare. Impegno, tanta volontà e pazienza, sono il prezzo da pagare per chi, ad un vero artista si vuole avvicinare. Con la fretta, con la prepotenza e con la supponenza, non si avvicina un vero artista, lo si allontana. Fate un po' voi... Se poi l'artista è finto, non è vero, beh, allora fate un po' come vi pare, non aspettatevi un risultato. I due filoni artistici, Nord e Sud, sono ben distinti e marcati, e lo resteranno per sempre. Non solo nel rappresentare le calde e preziose verdi lane, le preziose e morbide pellicce che ornano abiti e cappelli, e che si contrappongono all'infinita varietà di rappresentazioni bibliche tutte impostate dentro schemi e teoremi matematici e di chiesastiche interpretazioni teologiche. I due filoni seguiranno strade diverse per tutto il resto della storia, accavallando influssi magnetici gli uni sugli altri per il resto delle loro vite. Qui non si vuole assegnare medaglie, ma solo far capire che al mondo, oltre agli orti nostri, sono esistiti anche gli orti di altri, altrettanto importanti, altrettanto ben coltivati, curati, e degni di nota. Ma che c'entra tutto questo con il quadro che stiamo visitando ora insieme, che c'entra? Se avete fatto caso, nella frase che suggerisce il percorso da fare per analizzare le immagini dei lavori che più vi interessano, c'è scritto: “ ...quello che mi frulla nella testa...”. Ciò significa che durante la fase iniziale di questo lavoro, mi frullava nella testa tutto quello di cui stiamo discutendo ora. Vi sembra tanto starno, a me no! Mi frullava nella testa il passato, tanto per cambiare, e di questo passato, l'ossessione che mi perseguita e che non vedevo l'ora di trattare, per quanto ci sia riuscito, sul fatto che noi italiani ci crediamo sempre i più bravi e i più belli di tutti. Non è così, non è così, o perlomeno, non è sempre e solo così. Tutto questo ragionamento è oltremodo molto attuale, in un periodo in cui si parla senza conoscere, delle diversità che distinguono un popolo dall'altro, o peggio ancora, una razza dall'altra. Non divaghiamo però, lasciamo fuori politica e antropologia, e occupiamoci di arte. La storia, invece, non possiamo mai escluderla dal nostro dibattito, mai davvero, perché la storia è la casa, il palazzo, il castello, l'Atelier, il cesso, la strada e il museo, dove nel suo interno abita e regna sovrana, l'arte figurativa. Questo lavoro, La luce rosa 18/6, nasce e prende vita dal passato, dalla pittura veneta, quella pittura che El Greco, non esitò a definire superiore a quella toscana e romana. I love El Greco!... Quando El Greco morì nel 1614 a Toledo, lasciò in eredità un numero strepitoso di opere che diventeranno, per i grandi artisti del novecento, un punto di riferimento fondamentale. Sarà Picasso stesso a descrivere El Greco come l’unico pittore cubista prima di lui, affermando che fu proprio la visione delle sue opere a suggerirgli l’invenzione del Cubismo. E' questo il miracolo dell'arte che mi affascina da sempre, e mi intriga analizzare, scoprire, studiare, per entrare dentro questo miracolo, spiare tra le pieghe di questo mistero, per acquisire spunti di riflessione che sono parte integrante di un modus operandi e vivendi che è sempre esistito. Io cerco solo di farlo rivivere da uomo del mio tempo, con le mie caratteristiche, con le mie stravaganze e contraddizioni, chi se ne frega, io sono io, e tu... tranquillo, tu sarai sempre migliore di me. Diceva Amedeo Modigliani: "Noi abbiamo dei diritti diversi dagli altri perché abbiamo dei bisogni diversi che ci mettono al di sopra della loro morale”. La citazione è comunque pertinente, per tutto quanto qui tra noi raccontato, anche se la citazione dell'artista livornese è più da attribuire alle censure ricevute nell'ultimo periodo della sua vita, e la vita sua è stata, come la vita di tanti di noi, un vero inferno. Per quanto mi riguarda, i tanti premi ricevuti non valgono quasi niente. Non sono i premi e gli attestati che si pagano, che hanno un valore vero per un vero artista, ma il disinteressato e sincero riconoscimento della critica che conta, che ci ricompensa di tanta struggente fatica. Ma di questo ne abbiamo già parlato. Ritornando per un attimo su questo lavoro e su tutto quanto detto del passato, che in qualche modo lo ha generato, vi sarete pure chiesto quale e dove sia il collante che lega questi lavori recenti con tutti questi riferimenti col passato. Ebbene, la risposta è abbastanza semplice se ci pensate bene, la risposta sta già nel titolo di questa serie “La Luce”. Che poi, in questi casi la luce sia rosa o verde o rossa o vattelappesca, questo riguarda nello specifico il tema che mi sono dato io per i dolci o amari che siano, cavoli miei. E' la Luce che conta, è l'importanza della Luce che qui conta, e che tanto ho voluto valorizzare in tutti i modi. E' la Luce, “aridaje”, che fa da collante tra il tutto di buono che è già stato fatto (passato), e quello che sto cercando di fare oggi (presente). La Luce, che nella pittura altro non è che un effetto pittorico, magistralmente reso per mezzo del chiaro-scuro, con i riflessi che valorizzano i piccoli dettagli, che illuminano e fanno parlare gli occhi, le labbra, pure i capelli, rendendo caldi e profumati i tessuti, traducendo in arte tutto ciò che in natura avviene naturalmente. Quindi, il passato e il presente come si conciliano, o meglio, come spero io di conciliare questi due tempi in ciò che faccio, nella mia arte? Semplice, si fa per dire, catturando l'anima della Luce, il cuore della Luce, la sua testa, e anche il suo corpo, la sua pienezza, la sua solidità, il suo 3D. Tutto questo per me si chiama “atmosfera”, ecco cos'è la luce che io intendo catturare dal passato per traghettarla nel presente, senza farle perdere la magia che la stessa conserva dalla sue origini. L'atmosfera della luce è paragonabile al nostro universo. Un concetto, più che una cosa, impossibile da spiegare completamente, sempre colmo, pieno nel senso letterale del termine, di sorprese. La luce come universo che ci circonda, ci avvolge e non ha fine. La luce, con le sue fasce orarie, notturne e diurne, con i suoi misteri, con gli effetti meravigliosi che l'illuminotecnica ci mette a disposizione oggi, con il suo bagliore accecante mantenuto vivo dalla sua negazione, l'ombra. La luce con il suo magico universo di pulviscolo che ci avvolge e ci riempie con miliardi di piccole galassie che ci ruotano intorno, in silenzio, senza farsi mai notare, salvo tendergli una intelligente trappola. Trappola che gli può tendere solo l'arte visiva, perché conosce tutti i suoi segreti. L'artista e la sua pittura sono i soli che hanno capito questo, e solo loro la possono replicare allo stesso modo, lasciando inalterati i suoi segreti e i suoi misteri, la sua magia. L'arte ci aiuta a capire e ad amare la Luce. Meglio di così, davvero non saprei come fare a spiegare cos'è per me la Luce, che in questi lavori, con i colori giusti e distribuiti con oculata ponderazione, ho cercato di rendere interprete principale del mio tempo. Davanti alla mia Luce, il passato vi consiglia di entrare, e se lo ascoltate e lo supplicate per bene, sarà il passato stesso a trascinarvi dentro questa veneta Luce. Dall'altra, il mio presente suggerisce di starne fuori, di non farsi coinvolgere troppo e di opporsi al passato, e, in modo del tutto razionale, quindi laico, vi suggerisce di godere “del tutto” da spettatori esperti, da veri Vip. Ecco la mia risposta, la mia posizione, in merito al naturalismo storico nordico e il pensiero religioso e filosofico nostrano, mediato da uno studio atavico per la bella e classica composizione, dove tutto deve tornare e quadrare. Già l'ho detto, e mo lo ripeto, c'è una storia, dipinta su un fondale (passato), c'è un finale che determina il tema e che sta sempre davanti a tutto e a tutti, mai dimenticarlo (passato prossimo), per favore, e c'è in mezzo la Luce, che filtra, muove, amalgama e unisce il tutto (presente). Una Luce che si rivolge a noi, che ci cattura, e come una sirena, se la guardiamo troppo, rischia di catturarci e di portarci via per sempre. Dove? Dentro un misterioso e infinito universo. In arte, nulla o quasi capita per caso, checché se ne dica, tutto è un divenire e un susseguirsi di esperienze, a volte colpi di genio, che non terminano e non muoiono mai quando muore il suo creatore. In arte, quello che di buono si fa oggi, vive e si rinnova nei secoli a venire, alla faccia delle censure. Si sviluppa e matura dentro meandri di correnti e pensieri che, quando la storia lo decide e ritiene che sia il momento buono, li riporta a vita nuova. La storia si sviluppa di concerto con l'uomo, insieme decidono cosa farne e come viverla. E l'uomo, che è un Dio, fa i miracoli, e uno di questi miracoli è l'Arte. A pensarci bene, non è tanto strano che ancor oggi, da pittore, intendo, io guardi ancora al passato, e nel passato cerchi di entrarci dentro al limite del soffocamento, tanto mi intriga indagare e conoscere per scoprire e trovare sempre punti di contatto con il mio presente. Sì, avete letto bene, del mio presente, non quello degli altri, perché qui stiamo parlando del mio mondo, non del mondo degli altri. Quando io parlo del passato, non intendo andarmi a parare il culo dentro la storia che conta, tanto per, tanto per fare sfoggio di conoscenza e farmi bello. Inoltre, se penso a quante cose ho ancora da imparare, e che mi obbligheranno a rimanere ignorante, purtroppo, perché non avrò mai il tempo di imparare tutto, capireste subito che non oserei mai confrontarmi con esso, il passato, con supponenza, al contrario, ci mancherebbe altro! Ormai quello che sono, sono, e quello che so, so. Vero è che la mia sete di conoscenza non è ancora scaduta, e pertanto continuo ad alimentarla, a rinfrescarla, più che posso. Quello che seriamente voglio dire è che guardare al passato, accostarsi al passato che conta, è come sentirsi protetti. E' come avere la percezione di avere stipulato un'assicurazione sulla vita. E' come possedere un lasciapassare che ti permette di spostarti da un continente all'altro senza sentirti necessariamente di nessun paese in particolare. Quando sento parlare delle radici di un uomo, comunità o di un popolo, mi viene l'orticaria, mi incazzo, e penso che l'uomo non è una pianta, un vegetale, e se l'uomo avesse davvero messo le radici, non si sarebbe mai mosso, e noi non esisteremmo. Fanculo le radici! Ecco cosa mi sprona di conoscere e capire quello che si faceva a Venezia, a Firenze, in Sicilia, a Norimberga, o nelle Fiandre, nello stesso medesimo tempo, anno, mese, giorno e ora. Quando sono i Classici a formarti, i Classici hanno il passaporto universale, allora sei in una botte di ferro, e quella botte di ferro ti proteggerà per tutta la vita. Quello che io faccio ora, in questi ultimi anni di questo secondo decennio di questo terzo millennio, sono il risultato dell'incontro tra un passato, a me molto caro, che insiste nel voler tendere la mano al mio presente, e con esso intende sposarsi. Come se il passato volesse suggerire al presente, che è sempre possibile guardare, leggere e attingere ad esso, tante sono le scorte accumulate, non tutte utilizzate e sempre lì a disposizione per essere continuamente sfruttate. Può piacere o meno, può anche lasciare indifferenti, o perplessi, la cosa non mi tocca, non mi tocca più. Io sto facendo il mio percorso di vita, il mio percorso artistico. E vi assicuro che il mio percorso non è di certo un percorso né facile, né privo di insidie. In tutto questo io sto, comunque, in tutto e per tutto, dentro il mio presente, come ho già detto, ma non chiedetemi mai del mio futuro. Io son molto lieto dell'oggi, ma del mio domani non ho certezza. Mi chiamo Mauro, non Bacco, non sono sposato con nessuno, tanto meno con Arianna, e sono ancora felicemente libero e single. Mauro non sa nemmeno quello che farà tra quest'ora e la prossima che verrà, figuriamoci del futuro. Il futuro, se ne avremo entrambi l'occasione, lo scopriremo insieme solo vivendo, scusate la banalità. Se mi aveste chiesto un anno fa cosa avrei fatto oggi, non avrei saputo darvi una risposta. Se oggi mi chiedete cosa farò tra un anno, la risposta è sempre quella, non lo so. Ho una strada davanti, una strada che è segnata, una strada piena di buche e incertezze, di cui vi faccio partecipi senza ipocrisie e senza barare, di lavoro in lavoro, ho preso coscienza, anzi, per dirla tutta, ho deciso, di non aver compiuto sessant'anni per niente, e di regalarmi, per questo, il lusso di dire quello che penso. Una strada che, non essendo bella dritta e definita, qualche volta mi spinge fuori per farmene prenderne un'altra, ma io tengo duro e non mi faccio più incantare. Tengo duro, e vado avanti, lasciando che le Sirene cantino quello che vogliono, che tanto io sto bene ancorato al mio palo. Soffro, mi dimeno, urlo, bestemmio anche, ma tengo duro e vado avanti. Ve lo avevo detto, ormai lo sapete, e quindi, per favore, non fate finta di meravigliarvi ancora. Lo ripeto, io parlo e scrivo, vivo e dipingo come mangio, in piedi, con spalle e testa dritta. E se tutto questo lo faccio da seduto, comodo, soffro, a meno che non sia seduto sul mio water. Oggi 13 dicembre il fondale è terminato, ora, nel bel mezzo del palcoscenico, devo installare qualcosa di concreto, di semplice, ma che sia allo stesso tempo determinante per completare la scenografia. Qualcosa che sappia rendere tridimensionale lo spazio, e che mi faccia da trait d'union tra lo spettatore che sta fuori, e ciò che sta dentro la scena. Cosa andrà in scena di preciso ancora non l'ho capito nemmeno io. Male? No, forse è un bene! Per estraniarmi da tutto e da tutti definitivamente, prima o poi ci arriverò, devo spiccare il volo, finché resterò troppo coi piedi per terra, sempre seduto in quinta fila, non riuscirò mai a volare. In questo lavoro io percepisco che le ali stanno crescendo, e con esse la voglia di volare via. Dico questo perché sempre di più sento che il mio posto sta dentro la scena, sul palco, oltre che starmene seduto in disparte. A dire il vero faccio fatica a capire cosa farò da grande, ammesso che grande ci diventi. Che c'entra questo? Il fatto che io non sappia bene cosa stia andando in scena, la dice lunga. In scena stanno andando dei concetti, dei pensieri, accostamenti storici e artistici, magari anche un filino noiosi e ripetitivi, forse inutili da seguire, forse troppo personali. Essere partito dall'arte tonale del Rinascimento veneto, cosa peraltro vera e che mi sta molto a cuore, per rappresentare alla fine cosa, ahimè, non ne ho la più pallida idea, e mi sto perdendo. Ma proprio per questo, rifletto e rifletto ancora, e mi convinco che tutto va bene così, che tutto sta andando per il verso giusto; mi convinco che tutto questo è cosa buona. Significa che, a forza di spiare dal buco della serratura, a forza di guardare e rovistare dentro il passato, ora sto aprendo una porta nuova. Una porta che è molto pesante, una porta che fino a poco tempo fa era blindata, e che ora si sta spalancando per mostrarmi la vera meraviglia dell'universo intero. L'unica porta che ha il potere di traghettarci dentro spazi infiniti, nuovi, mai completamente conosciuti prima, e ancora tutti da scoprire. Questa porta ha fatto entrare la Luce cosmica, questa porta mi ha aperto all'astrattismo. Cosa farò dopo questa esperienza, nel prossimo lavoro, già mi è un pochino chiaro. Ma per quello che verrà c'è ancora tempo. Come finirò questo, oggi 21 dicembre, ancora non lo so. Il lavoro di custode, la stanchezza e lo stress nel seguire gente piena di tanti soldi, ma col cervello semivuoto e incapace di fare la spesa da soli o di recidere un mazzo di fiori, la fase post operatoria, la voglia di staccare da tutto, mi stanno bloccando, e non riesco a trovare la giusta concentrazione per andare avanti. Spero di ritrovare, con le feste che stanno arrivando, gli stimoli necessari per terminare il tutto. Il giorno di Natale e Santo Stefano, chiuso in casa, ho trovato il modo di chiudere il cerchio, come? Con il quadrato! Con il quadrato ho finalmente chiuso il cerchio e ora, oggi domenica 30 dicembre 2018, posso dire di avere terminato anche questa fatica. Dopo questo lavoro, dopo “La luce rosa 18/6”, non so se continuare con questo tema, oppure andare ad esplorare nuovi pianeti per vedere e conoscere nuove forme di vita. Sapendo che a breve si rinnoverà la giornata mondiale della Shoah, conoscendomi, ma questo è ancora tutto da vedere e da provare, magari deciderò di rimanere ancora un altro po' su questo pianeta terra, con sempre più voglia di spiccare il volo e andarmene via, da solo, per conto mio, che tanto bene mi riesce di fare. A onor del vero, devo aggiungere che il tocco finale, una volta inserito il quadrato, è stato dato il giorno 31, perché il tocco finale mancava, e senza quel tocco non potevo certificarne la fine. Ebbene, tre colpi violenti di spada, ragionati, voluti, inferti con la testa ancor prima che con le braccia, “senza sbrodolare croste” (Luciano Beretta), hanno chiuso definitivamente il cerchio e il quadrato, e hanno dato vita al coprotagonista dell'opera che qui è andata in scena, il triangolo, il Triangolo Rosa. E con questo, “La luce rosa” si è accesa per la sesta volta in un anno. Mi auguro abbia illuminato la mente di tante persone, non per compiacere il sottoscritto, chi se ne frega per la seconda volta, ma come atto dovuto verso la storia.