La luce di Enrichetta


Raccontato dall'autore

La luce di Enrichetta” è un chiaro - Luce - omaggio a mia mamma, Dossi Enrichetta.

Pensato, voluto e fatto, con la precisa volontà di omaggiare mia mamma; con questo intento è nato questo lavoro.

Ma cos'è che ha fatto scattare questa molla, qual è stato l'incipit che ha fatto decollare questo lavoro, da cosa è nata questa idea?

Tutto è partito per caso, davvero per caso e, mai e poi mai, avrei pensato di arrivare ad occuparmi – fare - di questo, dipingere centrini fatti a mano da mia mamma.

Questa cosa mi fa sorridere ancora adesso, a distanza di un mese da quando questo lavoro è stato terminato. Prendere lo spunto da una cosa, un oggetto che oggi più nessuno usa, più nessuno vuole, che tutti snobbano e di cui più nessuno si interessa, mi fa sorridere e divertire.

Fare Arte è anche divertimento, sempre e in ogni caso. Il divertimento che il pittore prova quando esprimere, realizza plasticamente (oggi va di moda dire così) un'idea, un concetto, fosse anche la copia intelligente di un oggetto.

Come dicevo, tutto è partito per caso, quando mia mamma da Portoferraio è arrivata qui, un paesino vicino a Verona. Tra le tante cose che si è portata con sé, abbigliamento, lenzuola, coperte, asciugamani, cenci vari (così li chiamano in Toscana gli strofinacci) e tanto altro ancora, c'erano anche un'infinità di centrini fatti all'uncinetto da lei. Che si fa di tutti questi centrini che non si usano più, si buttano? No, non era possibile, Enrica ci sarebbe rimasta troppo male, pensavo tra me e me senza nemmeno provare a dire una cosa del genere a mia mamma; anche se all'inizio il pensiero mi aveva sfiorato. Lasciamoli lì, pieghiamoli per bene e poi mettiamoli nell'armadio, magari messi in alto, dove più nessuno andrà a mettere mano per guardarli, tanto meno per usarli. Mentre insieme li guardavamo, mentre si aprivano per metterli via per bene, Enrica me li descriveva uno ad uno e di ciascuno si ricordava la storia. Quando era stato fatto e per chi, dove aveva copiato il disegno, per quale scopo era stato fatto, magari per fare un regalo, e per quanto tempo era stato usato. Un po' come quando io racconto dei miei quadri, la stessa identica cosa, davvero senza alcuna differenza dal punto di vista umano, della passione e dell'amore spesi per farli. Dopo alcuni giorni che si mettevano via le varie cose, dopo averli visti e rivisti questi centrini, è scattata una molla, tutto ad un tratto ho come avuto una illuminazione - Luce -, e prendendone in mano uno rotondo, abbastanza grande, con un disegno all'interno niente male, gradevole nel suo insieme, mi sono immaginato questo centrino all'interno di una composizione, dipinto su una tela. L'ho immaginato, l'ho visto finito, e mi è subito piaciuto. Ipso facto, ho composto “La luce di Enrichetta”, pensando a mia mamma, alla felicità che le si sprigionava da tutti i pori una volta che le ho spiegato cosa volevo fare con quel centrino. Fanne quello che vuoi, mi disse, a me non importa se si rovina, per me conta che tu lo possa usare per farne un quadro, perché so che se dici di usarlo, vuol dire che lo userai bene, e a me basta questo, prendilo!

Così è iniziato il tutto, così ho iniziato ad usare i centrini di mia mamma Enrichetta, così l'ho fatta felice, perché lei ha capito e visto che suo figlio ha dato un valore, un significato, e ha apprezzato i suoi lavori. Lei non se n'è resa conto bene, non ancora, ma mia mamma mi ha fatto scoprire una miniera d'oro, una miniera fatta di passione e amore, una miniera fatta di tanta Luce, la Luce di Enrichetta.

Penso, e forse esagero nel pensare questo, che il nuovo filone creativo diventerà il pilastro portante e definitivo per tutto quello che riuscirò a fare da adesso fino alla morte. Nella mente già mi frullano le tantissime possibilità di creare, divertendomi, con i centrini di Enrichetta. Credo fermamente, senza dover aspettare di morire per rendermene conto, che il centrino, il merletto, il pizzo fatto a mano, assumeranno significati che andranno, molto più in fretta di quanto si possa pensare, al di là di ogni riferimento limitato alla sola riproduzione dell'oggetto stesso. Tutto quello che ne uscirà fuori, d'ora in poi, sarà ben altro e ben oltre un semplice ricamo, sarà un mondo, un universo infinito e pieno di tutto. In questo tutto, rappresentato da un ricamo, un merletto fatto a mano da mamma Enrichetta, sarà presente, declinato in tutti modi che vogliamo, l'universo di Mauro Pavan.

Entriamo insieme dentro questo lavoro, tranquilli, siete in buone mani; vi accompagnerò io fino alla fine del percorso. Il prof. Vittorio Sgarbi parla di un ricamo che poggia sopra un letto, intendendo sopra una base fatta di forme e colori sulla quale questo ricamo (quando lui lo vide e lo descrisse non era ancora terminato, e mancava il secondo più piccolo, oltre a mancare gli specchi) è stato sistemato. Ci sta, ci sta come un budino o una crema di asparagi poggiano elegantemente – impiattamento - sopra un letto di granella di frutta secca o di una sfoglia di pasta fresca. Anche il ricamo di Enrichetta viene impiattato bene, servito per bene adagiato sopra un letto di marmellate di frutti di bosco; o forse si intendeva un copriletto o una trapunta ben disegnata e colorata sulla quale questo “ricamo” viene adagiato per lì riposare in eterno, come riposa la salma di una santa dentro una teca di vetro vestita per bene, vestita con l'abito della festa. Ci sta, ci sta tutto, il letto è perfetto e funziona sempre, sia in camera da letto, sia al ristorante, sia per l'arte, il letto accoglie tutto e tutti. L'importante è che sia un bel letto, un letto fatto alla regola d'Arte. Ecco, sciolto il nodo, avrei dovuto capirlo subito, e senza tanto polemizzare.

Torniamo e restiamo tra di noi, coi piedi ben piantati per terra, e ascoltate chi il lavoro lo ha pensato e poi eseguito.

Tralasciamo la prima parte, già ampiamente descritta, su come e perché nasce questo lavoro e arriviamo direttamente alla composizione – letto – finale. Parte della mia formazione accademica ruota intorno allo studio della scenografia, una parte molto importante direi. L'interesse da me espresso sempre, ogni volta, sta nel cercare il giusto equilibrio in quello che faccio, nel mettere insieme ogni elemento che concorre alla realizzazione, al completamento – impiattamento - di ogni singolo pezzo. Ironia a parte, il letto ci sta, magari non il letto di un Motel, ma un bel letto, un letto ben fatto e comodo, ci sta. Non posso entrare sempre in rotta di collisione col mondo, chiudiamola così.

Allora, il volto sorridente di mia mamma mi ha ispirato la Luce. Il centrino fatto a mano da lei all'uncinetto, una sorta di collare, di gorgiera principesca che l'aiuta ad illuminare ancora di più il suo volto. Sotto, l'abito da regina (mia mamma quando può, quando se la sente, ama vestirsi bene, elegantemente, e ama abbinare i suoi gioielli all'abito che ha deciso di indossare), per metà aperto, quello di sinistra, e per metà chiuso, fermo, quello di destra. Al collo una collana che brilla e che scende sul petto con dignitosa e genuina nobiltà; una nobiltà che riflette con onestà e trasparenza tutto il vissuto di Enrichetta Dossi.

La forma ad “S” che si nota sulla sinistra non è altro che l'apertura dell'abito che si apre mentre la figura – personaggio - avanza verso di noi. Sulla destra, il ricamo verticale, sempre un centrino fatto da Enrica, una fascia decorativa che impreziosisce il vestito da quella parte, e che lì resta fermo, chiuso, dritto. Una parte che avanza, mentre l'altra è ferma immobile; per ora ancora ferma, per ora ancora immobile. La regina madre che avanza, che muove il suo primo passo verso la gloria finale, avvolta nel suo immenso splendore.

In conclusione, non si tratta solo di un ricamo fatto dalla madre Enrica Dossi e dal figlio adagiato sopra un letto, no, non è questo, non è nato così banalmente questo lavoro; sotto c'è ben altro, dietro c'è ben altro, oltre il visibile, come sempre, c'è ben altro, esimio professore.

Ma per dire di più bisogna capire di più, e per capire di più bisogna conoscere di più, e per conoscere di più bisogna studiare di più. In questo caso lo studio è da intendersi, per non creare malintesi, semplicemente come una maggiore voglia di applicarsi di più, di voler conoscere meglio il pittore che si stai presentando. Forse mancava proprio l'interesse di fare di più, forse, chissà, ci sta, ci sta tutto ormai.

Guardate che io sono, tutto sommato, contento del commento del prof. Vittorio Sgarbi, tutto sommato, poteva andarmi molto peggio.

Oggi il mondo dell'Arte gira così, punto! Al primo posto non c'è più l'artista, c'è il professionista (dentro a questa parola ci stanno le mille sfaccettature dei mille personaggi che hanno fiutato il business del mercato dell'Arte) che punta lo specchietto negli occhi dell'artista e lo acceca con mille stravaganti frasi, dalle quali, un volta spremute per bene, sempre lo stesso succo salta fuori.

Servirebbe ribellarsi, per bere dell'altro, ma questo significa protestare, che significa non adeguarsi, che significa non accettare più di farsi mettere i piedi in testa, di stare sempre proni davanti a tutti questi professori e da tutti i vari procacciatori d'affari, buoni solo, nel migliore dei casi, di azzeccarci per metà, nel peggiore, di enunciare solo inutili frasi.

Fumo negli occhi. Quando tutto è bello e tutto è buono, quando tutto va bene e tutto si salva, si giustifica, vuol dire che siamo di fronte a pinocchietti che dal lungo naso fanno uscire solo tanto putrido vapore.

Allo stato attuale, è impossibile ribellarsi, se non per mezzo di uno scritto che nessuno leggerà mai, come questo. Ma chi se ne frega, intanto io mi sfogo così, con me stesso, con voi. Per ribellarsi bisognerebbe fare squadra, gruppo, e fare squadra tra artisti, oggi come oggi, sarebbe come chiedere a Biden di farsi gli affari suoi e di non rompere le palle agli europei. Ma per far sì che gli americani non rompano più di tanto le palle agli europei imponendo la loro supremazia su tutto, bisognerebbe che gli europei fossero uniti, unanimi e concordi sulle scelte da prendere in quanto europei. Non so per voi, ma per me il paragone regge, eccome se regge. Lasciare spazio al diffondersi dell'ignoranza, fare in modo di disgregare anziché aggregare, esaltare l'individualismo, promuoverlo, sta portando all'impoverimento delle buone idee che parte dell'intellighenzia ancora è in grado di esprimere, ma che inesorabilmente si stanno spegnendo, esaurendo, per sfinimento.

Non fraintendete, non sto dicendo che i professori dicono solo e sempre cose non pertinenti in merito alla persona e ai lavori che vedono e giudicano, dico però che quasi sempre, oltre metà di quello che si dice è fumo. Frasi preconfezionate e paragoni buttati lì, da sgranare all'occorrenza più per far emergere la propria erudizione personale che per dare forza all'incognita (per carità, magari non sempre interessante e meritevole di nota) con cui ci si trova a fare i conti; soprattutto quando per cinico opportunismo si preferisce recitare a memoria. Tanto chi di voi va a verificare se è pertinente il paragone con Tiziano e Veronese, quando, nel mio caso specifico, io ho sempre guardato a Tintoretto. Si interpreta, si aggiunge e si toglie quanto basta, e poi si inforna il tutto sempre a 180°. In questo caso sono bastati 2:59 minuti, e lo sformato era pronto. Sulla ricetta però c'era scritto che servivano almeno 3 minuti interi.

Concordo sull'eleganza delle mie composizioni, tanto è l'impegno che ci metto per creare armonia tra forme e colori, cercando di dare il giusto peso – dimensione e tono - che forme e colori richiedono per vivere bene tra loro, in armonia, appunto, e per questo, in pace perenne con la storia.

Quello che è mancato, quello che mi sarei aspettato di sentire, è il non aver colto ed evidenziato il processo evolutivo che caratterizza tutta la mia produzione. Il divenire costante tra un lavoro e l'altro che fa balzare agli occhi la maturità continua che si nota tra un prima e un dopo. Vi lo assicuro, tutto questo c'è, si nota, è presente. Credo, pertanto, che su questo punto sia stata più una mancanza da parte di chi ha ideato e presentato al prof. Sgarbi la mia produzione. Questo mescolare un lavoro con l'altro, senza aver tenuto conto del giusto prima e del giusto dopo, potrebbe aver causato una sorta di ubriacatura da Vinitaly'22 mandando in confusione il povero professore, come avrebbe mandato in confusione chiunque altro. Infatti, dopo aver bevuto, diciamo bevuto ovviamente bene dai, si vedono gabbie, letti, specchi, ricami – il tutto definiti espedienti -, ma non si vede quello che sta oltre, perché non si va oltre, o, forse, mancava il tempo, e il tempo è sempre denaro. Dimenticavo, mancava anche “il padre mancato”. Quando si dice che l'alcool gioca brutti scherzi.

Guardate che in buona sostanza è tutto vero, tutto giusto, tutto pertinente, ma... Ma dietro a tutto questo c'è molto altro, c'è sempre l'universo, l'aria, l'atmosfera di Mauro Pavan.

PS: Per gli addetti ai lavori, non me ne vogliano gli altri, in effetti, sforzandomi di capire il paragone con Tiziano e Veronese, senza aver menzionato il genio di Tintoretto, forse, sotto sotto, dopo aver provato a capire, pur facendo molta fatica ad ammetterlo, credo che questo suo paragone non sia del tutto campato per aria. Certo, bisogna impegnarsi per capirlo e giustificarlo, ma mica poi tanto sapete... Questa la mia conclusione: l'eleganza che nei miei lavori il prof. Sgarbi vede, ha ben poco a che fare con l'eleganza di Tintoretto, che pure c'è, è ben presente, ma si tratta di una eleganza retorica, una eleganza intuitiva e distruttiva, in quanto moderna, foriera di concetti di eleganza riconducibili ai concetti che noi abbiamo maturato con la conoscenza e l'esperienza che l'arte modera, dalla metà dell'800 in poi, ci ha regalato ed abituato a comprendere, a considerare. Se però ci fermiamo al concetto di eleganza classica, ancora legata tout court all'insegnamento del programma scolastico, allora Vittorio ha ragione nell'affermare che l'eleganza che si estrapola dalla composizione che si vede nei miei lavori, rimanda subito a Paolo Caliari e, casomai, anche a Tiziano, di sicuro più a Giorgione, ma non a Tintoretto. L'eleganza che vede il professore è di sicuro una eleganza visiva e immediata che subito salta agli occhi per il bel componimento, il bel compito fatto. L'eleganza che intendo io e che nei miei lavori è presente, è una eleganza che non risparmia nessuno e non esclude nessuno, tanto è completa, conclusa, ineccepibile e globale.