Lirismo-agostano


Raccontato dall'autore

Agosto è arrivato, l'estate è ormai matura. Pure lei sente l'affaticamento di un'età che avanza, ed io, che quest'anno non ho soldi da spendere, ho deciso che me ne starò a casa buono buono a dipingere. Appare subito ovvio che questa è stata una decisione presa date le circostanze economiche sfavorevoli, subita inizialmente con un certo dispiacere e malessere interiore, ma in seguito tutto si è trasformato in una sorta di piacere. Inizialmente un po' forzato, ma poi è esplosa una vera e insostituibile felicità piena. Alla fine, il sole e l'atmosfera vacanziera d'agosto, li avevo portati dentro casa. Anche perché, una volta che sai di non poter avere una determinata cosa, se proprio propiro la desideri tanto, da creativo, te la crei e te la regali da solo (significato di artista). Ebbene, questo è accaduto, questo è stato l'input per iniziare e finire questo lavoro augusteo.
La vogllia di fare una vacanza quest'anno era forte, sarei andato volentieri a Napoli, o in Puglia, ma le cose non vanno quasi mai come si vorrebbe che andassero. Ho dovuto, forza maggiore, togliermi il peso di un debito non indifferente, a cui si è subito accodato il mio avvocato. Auguro a questo parrucchiere di spendere tutti quei soldi in medicine, conoscendo solo io quello che mi ha fatto passare questo essere spregevole che si considerava, per via del suo mestiere, un “personaggio pubblico”. Morale della favola, io sono rimasto completamente al verde. Demoralizzato e con la voglia di piangere? Manco per sogno!
Sempre in piedi, sempre dritto, sempre di più con la testa rivolta verso l'alto, proiettata verso mondi che, voi umani, e soprattutto voi parrucchieri, non potete nemmeno immaginare. I sassolini che qui mi tolgo sono sassolini assolutamente pertinenti con ciò che sto facendo in questo determinato momento, e ci tenevo a dirlo. Lo ripeto, dentro un determinato lavoro, meglio, dentro ciascun lavoro, non c'è solo la tela, la colla, il gesso, i colori, la carta e i pennelli. All'interno di un lavoro, di una composizione, di un progetto, c'entrano anche le emozioni, gli stati d'animo, il tuo star bene o il tuo star male, c'entrano tutti gli stati d'animo di quel determinato tuo periodo. Dentro un lavoro, anche questo lo ripeto, c'è dentro la tua vita. Ci sono i cavoli miei!
Non lo nego, una bella vacanza, con la presenza indispensabile di un mare, mi manca. Ma in agosto, a Verona ho trovato ugualmente un amore, un amore passeggero, un amore agostano, ho trovato te. Io che amo solo me, ho trovate te, dentro e fuori di me, qui, ora, davanti a me ci sei solo tu.
Sdraiato comodamente, e trincerato nel mio balconcino che guarda a nord-ovest, da dove si intravede il campanile della basilica di San Zeno, il monte Baldo e perfino le montagne del bresciano quando il cielo è terso, ho trascorso la mia vacanza agostana del 2019. Povero me, o povero te, verrebbe da dire, vero, l'ho pensato anch'io più di una volta, ma dentro questa, apparentemente brutta fine, è maturato qualcosa che io ritengo miracoloso, e ciò mi soddisfa non poco.
E' successo che, guardando il cielo, guardando nel vuoto cosmico e assolato d'agosto, cosa che ho fatto un miliardo di altre volte, ho riflettuto molto su come sarebbe stato il mio prossimo lavoro, quello successivo a “Opera 19/1”. Non cercando più spunti dentro il mondo reale, cerco, non senza faticare, di trarre dal reale spunti indiretti e un po' sfuggenti, non facilmente afferrabili e descrivibili, in quanto non facilmente individuabili. Così, per caso, come se avessi avuto un'apparazione mariana, ho visto, chiudendo gli occhi, un mondo fantastico, fatto di magnifiche informità colorate, indescrivibili e perfino inquietanti, che si mescolavano tra loro dando forma e vita ad un microcosmo surreale. Un microcosmo ricco di minuscoli esserini che si muovevano e si intersecavano tra loro, come quando si guarda al microscopio qualcosa che sembra immobile e statico, ma che si rivela poi, al contrario, un macrocosmo che pullula di vite eterogenee e informi, indefinite, sempre brillanti e coloratissime.
Tutto questo mi ha dato lo spunto per navigare in totale autonomia e libertà, e senza pregiudizi di forme e contenuti dentro questo universo, cercando, con delicata circospezione e genuina curiosità infantile, forme di vita surreali ed extraterrene. Il tutto ammantato di indefinibili aloni che conferiscono al tutto un'aura di sincera magia e di calda spiritualità.
Questa la sintesi stringata di come questo lavoro è nato. Avrò modo di ritornare sull'argomento, ma ora, dovendo spedire quel minimo indispensabile che mi è stato chiesto, da sottoporre al prof. Vittorio Sgarbi, di cui non oso nemmeno pensare avrà mai voglia e tempo di leggere, mi fermo qui. Che tanto, se si vuole capire, in coda a tutto quanto fin qui già detto, credo che basti e avanzi.
Per noi, la chiacchierata non finirà qui, promesso!
27 settembre, rieccomi, mentre il nuovo lavoro sta procedendo, le analogie con questo vi saranno più evidenti quando lo vedrete e, potrete così, metterli a confronto. Le analogie ci sono perché sono simili gli spunti da cui sono stati pensati e visti e rivisti in anteprima, e poi creati con le giuste, parlo sempre per me, ovviamente, maniere. Tutto questo non va però preso alla lettera, c'è sempre una parte del progetto che risponde solo alla scienza, non alla coscienza, alla conoscenza, non al fai da te. Mi spiego meglio, J. Pollock distrugge e annienta il reale per mezzo di un istinto animalesco furioso, in preda a bellissime e realistiche paranoie che, tanto gli scombussolavano dentro e fuori l'esistenza, tanto questo sconvolgimento veniva brillantemente esplicitato sulle sue immense superfici. Superfici immense, come immenso era il tormento che agitava la vita e la mano di Pollock. Annientamento di tutto ciò che è ordinatamente ben organizzato, convenzionalmente ben organizzato, per mezzo di una delle più alte, nobili e intelligenti, performance che l'arte abbia mai conosciuto. Non chiudo gli occhi per annullare il tutto, ma li apro per bene. Non annullo completamente la ragione, ma la scremo il più possibile per trarne il succo più buono. Non lascio che le mani vadano per conto loro, alla rinfusa (volevo dire altro), ma le mani devono eseguire i comandi della mente e degli occhi (sempre vigili). Dove si crede di vedere il caos, il disordine, là, di solito, vigono regole molto molto ferree. Difficile ripensare una tela di Pollock senza cadere nell'errore di rifarla stupidamente tale quale, tanto è stata magistralmente con disordine ordinatamente composta che è magistralmente impensabile iproporla.
Ve lo ripeto fino allo sfinimento, copiare fa bene, copiare va bene, copiare è utile, ma copiare con la frettolosa presunzione di vestire i panni dell'originale è demenziale. Copiate pure, anzi, dovete copiare (intendo all'inizio, ben inteso), ma copiate sempre con un occhio rivolto all'originale e l'altro fisso sulla vostra tela o foglio. Quando copiate la prima volta è utile copiare con scolastica scrupolosità. Quando copiate la seconda volta cercate di copiare per metà, e ingaggiate pure una lotta tra voi e chi ha fatto prima di voi. La terza volta che copiate, copiate solo per dimostrare che siete stati in grado di equiparare l'originale e, ai più talentuosi, dico di fare di tutto per superarlo. Solo così ha senso copiare. Chi copia meschinamente all'infinito come fosse la prima volta, a quello dico, fai come ti pare, ma evita al mondo la tortura di vedere esposte le tue copie ingannando la fragilità di menti ingenue.
Poi, in Italia, arriva Giulio Turcato, tanto per citarne uno di quelli giusti. Cosa ti combina Giulio Turcato? Riprende la lezione di Pollock, e te la rigira all'italiana, con la pretesa di riscriverla in bella copia, di valorizzarla, nel senso di renderla più borghese e più digeribile per i nostri palati, abituati più alle regole che alla genuina sregolatezza. Tutto questo mascherato da “sinistra” libertà. Turcato cerca di mettere ordine là dove Pollock l'ordine l'aveva già messo sconquassando tutto; a tanto arriva un grande artista. Turcato pretende di ordinare direttamente, subito, senza prima aver gustato il sapore della sregolatezza, da vero radical chic. Ma Giulio Turcato è un artista vero e sincero, al di là di tutto, pertanto, dopo essersi iscritto al PCI, condividendo con il partito l’idea che la cultura deve avere rapporti ed effetti sul rinnovamento della società, il suo spirito libertario e antiaccademico gli suggerì di andare per la sua strada, una strada che lo condurrà sempre di più ad andare controcorrente, in aperto dissenso con l’estetica del PCI. In aperto contrasto con Togliatti e Trombadori, voce ufficiale del partito in tema d’arte. Turcato, 10 anni dopo, spiegherà le ragioni per cui lasciò il PCI.
Perdonatemi se state percependo un leggero, un sottile piacere in ciò che sto scrivendo su alcuni aspetti della vita politica di Turcato, in deroga alla sua arte, ma per me, questa, è una scoperta nuova. Una piacevole scoperta, un cambio di rotta condivisibile e che sto facendo anch'io, in mancanza di un “mio” PCI. Lo stesso percorso, lo stesso cambio di rotta, per questo scrivo questa parte della sua vita con cameratesco piacere. Le ragioni che hanno portato Giulio Turcato a dissociarsi dal partito comunista, dopo l'assedio di Budapest del 1956, da parte dell'esercito sovietico, sono di seguito spiegate.
“Perché, a parte le considerazioni politiche, nel PCI non esiste un minimo di libertà d’espressione per gli artisti. L’equivoco sta nel fatto che ti dettano come devi dipingere, come devi seguire un determinato schema figurativo. Che poi ora ci sia qualcuno che fa l’espressionista non vuole dire nulla. Per il PCI tutta la pittura che non si adegua a certe direttive è pittura borghese. Cioè, pittura di una società marcia” (1956). E ancora, “Il disegno astratto, sempre che sia eseguito dalla mano di un artista, dà la percezione in forma più dinamica di quanto egli scopra nella sua fantasia” (1956). Inoltre, “Le libertà espressive sono di chi se le prende. Quando non c’è lo spazio se ne può inventare un altro. Il metodo per inventarlo è già quasi il nuovo spazio”. (1965). Giulio Turcato dunque fu sempre uno spirito inquieto e battagliero, libero, creativo e ribelle nella politica come nell’arte, dove mai si adeguò al conformismo imperante del cosiddetto “realismo socialista” del PCI. Poi arriva Mauro Pavan, che pretende di dire la sua, e fin qui tutto è normale e legittimo. Ma cosa può dire Mauro Pavan di diverso e di nuovo a quanto fin qui già raccontato? Pavan, cerca, si sforza continuamente, con lenta, progressiva e costante coerenza (quasi un'ossessione), di dare una lettura nuova raccogliendo tutto nel suo cervellotico frullatore (ricordate, ne avevamo già parlato), per frullare e mescolare tutto con la speranza, il desiderio, la pretesa financo, di tirarne fuori qualcosa di buono e di nuovo (vera presunzione, legittima sfida). Mentre Pollock arriva al disordine per mezzo dell'ordine, Turcato vuole riordinare il tutto, e lo fa egregiamente, ma, forse, senza aver capito bene cosa voglia dire ordine senza passare prima per il disordine. Pavan, per quel poco che ne capisco io, tenta di mettere ordine al disordine (il disordine per Pavan è comunque un disordine già ordinato), ordinando però, a differenza di Pollock, con la ragione e non più con la bella ma sregolata calligrafia. La calligrafia di Pavan è buona, ottima anche, ma è una calligrafia sempre attenta (la scuola) e scientifica (la ragione), troppo financo, mai ubriaca (ahimé), non con la consapevolezza di esserlo. Un percorso inverso a quello di Pollock, almeno così lo intendo io. Pollock ordina sconquassando tutto, compreso se stesso, Pavan ordina ciò che è già stato ordinato e sconquassato, seguendo un criterio megalomane di riordinare idee e concetti riconducibili ad un ideale estetico che, proprio per questo, non può e non potrà mai essere ordinato del tutto, nel senso di soggiogato (megalomania e un pizzico di follia); aiuto, mi devo preoccupare?... Infatti, per questo motivo (Pavan ne è pienamente consapevole), con lucida megalomania e follia psichiatrica si sta audistruggendo. Consapevole e inverosimilmente felice (follia pura) di questa autodistruzione.
Follie!
Follie!
Delirio vano è questo!
Povera donna, sola, abbandonata in questo popoloso deserto che appellano Vita, che spero or più? Che far degg'io? Gioire!
Di voluttà ne' vortici perir!
Sempre libera degg'io, folleggiare di gioia in gioia vo' che scorra il viver mio pei sentieri del piacer. Nasca il giorno, o il giorno muoia, sempre lieta ne' ritrovi, a diletti sempre nuovi dee volare il mio pensier.
Roba da matti? No, roba da folli intenditori!
Alda Merini aveva compreso e descritto con estrema lucidità la maledizione che si abbatte sull'anima di un artista, che lo tormenta fino a consumarlo, fino a distruggerlo. Lei lo sapeva, lei conosceva bene la materia, e l'aveva spiegata pure molto chiaramente, poco prima di morire. Una condanna, questa, senza colpa, senza aver commesso reato, senza aver fatto nulla di male, se non di portare su di sé la colpa di aver creato scompiglio dentro l'inerzia fittizia di un mondo sempre più vacuo.
Pavan attinge dal suo cosmo (ciascuno di noi ha il suo), che altro non è che un complesso e ingarbugliato fardello formatosi dopo aver già consumato ben dodici lustri. Il mio cosmo non è formato solo di cose negative, brutte esperienze e brutti ricordi, tutt'altro... Nel cosmo di Mauro Pavan ci sono anche tante belle cose, cose positive, esperienze e ricordi bellissimi, unici, magari durati per poco tempo, ma di indiscutibile valore, come l'amore per l'arte. E' sempre difficile spiegare con parole semplici cosa significhi amare l'arte, crescere con la consapevolezza di aver avuto fin da piccolo, questo interesse che parte e cresce dentro di te, come se si trattasse di possedere un organo in più rispetto a tutti gli altri. Una forza prepotente e arrogante, ma gentile allo stesso tempo, che ti ha agitato dentro la passione per lo studio e l'amore per l'arte. A volte credo che si nasca davvero così, con questo amore dentro, cucito sulla pelle, come fosse un neo, un neo che solo tu hai e hai sempre avuto fin dalla nascita e, forse, ancor prima. Come si fa a spiegare quella cosa che tu e solo tu senti di avere dentro e che, da dentro, muovendosi, agitandosi, condiziona anche il tuo io esteriore. Tu senti di avere dimestichezza con le mani nel muoverle per creare, nel senso di manipolare cose che, in seguito, prendono una determinata forma che, qui sta la magia, alla fine ti rappresenta, ti assomiglia. Quella forma che tu hai creato, alla fine del lavoro, è cosa che ti appartiene, nel senso che quello che tu hai fatto è parte di te, sei tu medesimo. Questo, per me, significa amore per l'arte. E quando qualcuno ti chiede cos'è l'arte per te, la cosa più sensata e onesta che si possa dire è: l'arte che tu vedi e che ho fatto io, quest'arte, sono io. L'arte che tu vedi e che ha fatto Tintoretto, quell'arte è Tintoretto. Siamo sicuri e conviti che l'arte sia e rappresenti tout court l'artista che l'ha creata? Non è tutto così semplice. La grande arte che ha rappresentato i grandi che l'hanno fatta, ha, con loro, attraversato tutti i mutamenti della loro vita. L'arte come continua evoluzione, l'arte che muta e si trasforma antropologicamente col mutare del suo “padrone”. L'uomo-artista che muta e condiziona il mutamento della sua arte, quello è l'artista più grande, l'artista capace di mutare. L'arte deve evolversi, così come si evolve l'uomo-artista. Diceva Socrate che una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta, e ancora, chi vuole muovere il mondo muova prima se stesso. Quando l'arte si ferma, si blocca, significa che quell'arte ha terminato il suo cammino, che è arrivata al suo capolinea, in sostanza, che è morta. Ora, si può morire con gloria, con tanta gloria, e con quella gloria si continua a vivere, o si muore senza aver davvero mai vissuto, nell'oblio più totale. Ma tutto questo è perfino pleonastico ricordarlo. Oggi, domenica 6 ottobre, ho terminato l'ultimo lavoro, di cui non ho ancora trovato un titolo che mi convinca. Anche qui la luce è protagonista. L'idea di un'estate che sta teminando, di tramonti che si sbiadiscono, si scolorano, ma che ancora resistono e, forse, perché ormai stanchi, ti catturano lo sguardo fino ad ipnotizzarti, tanto è possibile entrarci dentro senza accecarsi, senza poterli riaccendere. Di quest'ultimo lavoro, non troppo diverso da questo (mutatis mutandis), ci ritorneremo su in seguito.
Lirismo agostano è quindi un concentrato di considerazioni, spunti e riflessioni fatte quest'estate in completa solutidine, nel mio bilocale, a dipingere, sdraiato sul balcone prendendo due scampoli di sole prima di un tramonto che, a Verona, ancor più che altrove, per davvero ha qualcosa di magico, di veneto (sedimentazione cronica), di lirico, appunto. Mi sono staccato dal mondo, dalla politica nostrana, che in questi primi giorni di agosto ci ha mostrato il peggio di sé. Diceva ancora Socrate che la pena che i buoni devono scontare per l'indifferenza alla cosa pubblica è quella di essere governati da uomini malvagi. Mi sono staccato dai pensieri negativi e dai desideri di possesso, di vendetta, staccato dall'invidia e non provo più gelosia per niente e nessuno. Sono sempre più convinto che avere la mente sgombra e libera da tutto ciò che è inutile, sia indispensabile per esplorare mondi nuovi, per vedere cose nuove, diverse, mai viste prima. Mi sforzo di star bene da solo, di provare piacere per questo. Mi convinco che tutto questo, per me, nel mio caso, sia la strada da perseguire. So che è giusto così, anche se faccio ancora fatica ad accettarlo.
Guardo il tramonto, fisso il sole che mi sta salutando con un arrivederci, lo guardo dritto negli occhi, che il 21 di agosto lui me lo permette, scambio con lui un sorriso e lo saluto, mentre si corica dopo averti riscaldato il cuore e ricaricato la mente. Allora anch'io chiudo gli occhi, e mi lascio andare con lui. Andiamo via insieme, uniti nell'anima, ma anche nei ricordi suggestivi che abbiamo condiviso. Mi sono sentito parte integrante di quel miracolo che, altro non è, che il mistero della vita. Sempre Socrtae diceva che l'uomo più ricco è quello che si accontenta di poco, perché la contentezza è la ricchezza data dalla natura. Per capire questo concetto socratico, molto intelligente e moderno sotto tutti i punti di vista, io sono arrivato ai cinquant'anni, quando mi sono trovato con le pezze al culo, senza più niente di niente e, dovendo ripartire dal principio, mi sono accorto quanto siano inutili le cose inutili. La possibilità di vivere in simbiosi con la natura e di trarne sintesi buone e straordinariamente magiche, anche questo è parte del miracolo della vita che si fa arte. Sintesi che si rinnovano e si trasformano assecondando il nostro stato d'animo, fino a trasformarsi in realtà oggettive per mezzo di forme e colori che fissano su un qualsivoglia supporto, l'arte.
Immerso in questa estasi, sempre poco mistica (io qualche sforzo lo faccio sempre), e molto razionale, mi riapproprio della mia entità di uomo, e cerco di esplorare dentro questi nuovi spazi sconfinati, cogliendo tutto quello che di buono e interessante trovo. Quello che di buono trovo, lo memorizzo e me lo porto via, a letto con me. Ci faccio l'amore, ci dormo abbracciato, lo bacio e lo coccolo, e poi me lo mangio, giorno dopo giorno, gustandolo come si gusta un cioccolatino, e lo faccio mio per sempre.
Così nasce “Lirismo agostano” e come è nato questo sta nascendo il prossimo, oggi 25 ottobre, già terminato da due settimane.
Ieri era il 24 ottobre, compleanno di mamma Enrica. Povera donna, era il suo compleanno e di mattina mi chiama lei per prima, convinta di aver sentito il telefono squillare immaginando che fossi io. Comunque l'ho chiamata verso le 9.30 del mattino, e lei mi ha ringraziato di averla chiamata già una volta. Poveretta mamma Enrica, il Parkinson se la sta portando via. Le ho chiesto se potevo andarla a trovare, ma la risposta è sempre la stessa: mi piacerebbe tanto ma sai che non posso per non litigare con Giovanni. Giovanni, ti auguro di vivere ancora cent'anni, affinché tu possa aiutare mia mamma, ma ti auguro in seguito di passare le pene dell'inferno per l'eternità, per tutto il male che ci hai procurato, per tutta la cattiveria gratuita e il rancore che hai sempe coltivato dentro di te.
Oggi 25 ottobre, “Cavoli rossi” (il nuovo lavoro di cui parlerò prossimamente), mi piace, lo trovo pertinente questo titolo, sfacciatamente pertinente, sfacciatamente divertente.
Fantasie di giochi informi intrise anche di perversioni erotiche del tutto personali che, sotto il controllo di una disciplina ben organizzata e preparata, si fanno geometrie, un po' disciplinate e un po' indisciplinate. Il disordine genera l'ordine, un ordine stabilito dai capricci e dalle convenienze più o meno folli di Mauro Pavan, non della Natura, che in questo caso, mi dispiace per Socrate, non c'entra nulla.
Ma il cervello dell'uomo è parte della Natura? Peccato, mi stavo sforzando di trovare una risposta affermativa, ma a pensarci bene, ad essere onesti, non trovo alcuna relazione tra il cervello e la Natura. Amico Socrate, in questi duemilaquattocento anni di storia che ci separano, ne sono accadute delle belle, oggi diciamo, di ogni.
Ma torniamo coi piedi per terra, compito di un vero artista è quello di scomporre quest'ordine per cercare di riordinarlo secondo le regole dell'arte, vale a dire con regole sapientemente sregolate, e artisticamente ordinate.
La maniera della libera e soggettiva interpretazione del fare, svincolata da lacci e laccioli, che ha ispirato e dato in seguito il nome a questo periodo post rinascimentale noto come Manierismo, non è meno importante, meno nobile, del Rinascimento o del Barocco stesso, anzi. Io ridefinerei completamente il Rinascimento, dilatandolo nel tempo e con meno pretese di etichettarlo con una data di produzione e una di scadenza, come si è fatto finora. E' difficile datare il Rinascimento, a meno che non lo si voglia inquadrare dentro schemi già ordinati e già accettati per convenienza accademica. Il Rinascimento va inteso più come una lunga tappa di un lungo un divenire, che come un movimento che nasce oggi e muore dopodomani. Le regole messe per iscritto lo hanno incoronato e santificato, ma tutto il lavoro preparatorio che sta sotto e che lo ha portato a sedere in trono, era già stato avviato molto tempo prima. Così è per la sua fine, che non può combaciare in modo così netto e risolutivo con la calata in Italia degli ennesimi langobardorum, agevolata e capitanata dai miei vicini di casa e amici mantovani (Guicciardini). La maniera con cui ciascun artista si è adattato a fare e, allo stesso tempo, ha adottato come stile per fare è, a mio avviso, la prima vera forma di espressione d'arte moderna che troviamo nella storia dell'arte. Nasce la prima vera libertà del fare, senza l'obbligo del copiare. Il Manierismo altro non è che un Rinascimento maturo, vecchio, anziano, quindi molto saggio, molto furbo, e scaltro. Non è il Rinascimento dell'Uomo vitruviano giovane di Leonardo che, da “uva acerba si fa vino buono”, questa bellissima frase non è stata scritta per Leonardo, è stata scritta per Mauro Pavan dal poeta e maestro Luciano Beretta. E' il Rinascimento dell'Uomo maturo di Leonardo, ignaro, in gioventù, della calata dei mercenari barbari affamati di denaro più che di vendetta, sponsorizzati dalla vanitosissima, modernissima e coltissima amica Isabella, e ignaro, financo, della fine del suo amatissimo creatore Leonardo, non inventore (Platone getta le basi, Virtuvio le certifica e Leonardo le santifica). Leonardo mette nero su bianco quest'Uomo nel 1490, ma quest'Uomo era già nato molti secoli prima. Infatti è lo stesso Leonardo a definirsi un “ignorante”, per averlo scoperto tardi pure lui. Ego te absolvo, Leonardo!
Siete ormai abituati a leggere oggi quello che è successo un mese fa, infatti, è solo questa sera, 21 novembre 2019, che riesco a concludere questo racconto sul mio “Lirismo agostano”. Ma non posso lasciarvi senza raccontarvi quello che è accaduto l'altro ieri pomeriggio, 19 novembre, verso le 14.30. Suona il telefono a quell'ora, ora molto insolita per mia mamma, ma era propiro lei. Mi chiama, si scusa del disturbo (sto parlando di mia mamma), e scoppia subito a piangere. Mi dice che sta approfittando di quel preciso momento in quanto Giovanni non si trovava in casa (dove sia a me non interessa e non l'ho chiesto) e, per questo, mi chiama chiedendomi scusa per avermi lasciato-abbandonato da giovane per seguire Giovanni. Ammette di aver fatto uno sbaglio, si scusa, si scusa e mi ripete le scuse più volte. Alla fine, in lacrime, mi chiede di essere perdonata e di essere contenta di essersi tolta questo peso che si portava dentro da quarant'anni. Ovviamente io la rassicuro dicendole che non serve perdonare più niente, ormai, oggi, e che ormai va bene così, anzi, fin troppo bene. Sappiate tutti che questa telefonata mi ha fatto non piacere, ma molto, molto di più. Questa telefonata di mia mamma mi ha rigenerato, in quanto ha ristabilito i giusti equilibri che si erano rotti e che erano finiti in mille pezzi sparpagliandosi dappertutto. Non serviva perdonare mia mamma, perché mia mamma, con questa telefonata, si è perdonata da sola. Grande donna, alla fine, tutto sommato, mia mamma. Santa donna, davvero, mia mamma. Resta il fatto, che mi fa incazzare da morire ancora una volta (musica per le mie orecchie, da troppo tempo abituate ad ascoltare questa tragedia), che mia mamma ha dovuto aspettare che Giovanni non fosse in casa per telefonare e parlare in tutta libertà con suo figlio. Giovanni, che tu sia maledetto in eterno!
E con questo epilogo, io lo intendo tale, posso mettere la parole fine a questa storia durata anche troppo a lungo. Io non posso ancora scrivere su come si concluderà definitivamente, ma posso dire con sincera convinzione che con mia madre pace è fatta. Grazie a lei, tutto si è ricomposto, almeno nelle intenzione che, a parer mio, contano più di ogni altra cosa. Per quel poco che ci resta ad entrambi di vivere, sarà, almeno nelle intenzioni, appunto, un nostro bel vivere. Tutto il resto non conterà più. Solo bei ricordi e tanti sorrisi, d'ora in poi, tra di noi. Lascio a te, caro amico Socrate, l'ultima parola: Avendo il minimo dei desideri si è più vicini agli dei.