Nel mio passato


Ho voluto mettere questa foto di quando ero ancora a Castiglione delle Stiviere, probabilmente nell'estate del 1970, prima di lasciare questa bellissima cittadina per andare in collegio in seminario per le scuole medie, a Verona; visto che l'anno trascorso in casa da solo a Castiglione, ero stato rimandato in tre materie. Ebbene, quell'anno, in cui mia mamma frequentava ancora Carlo Costa (imprenditore del settore lapideo di Castiglione), e che aveva provato a lasciarmi da solo, dopo i cinque anni passati in collegio alle elementari, io facevo di tutto tranne che studiare. Non avevo riferimenti che mi spronassero e aiutassero nello studio, per questo passavo il tempo a disegnare e dipingere, a creare maschere da appendere sui muri nuovi e sulle porte nuove di casa, a leggere libri d'arte, a guardare la televisione o a giocare con l'amico Giacomo nei magazzini dello stabilimento che i suoi genitori avevano dietro casa loro, confinante con la nostra. Con Giacomo e suo fratello più piccolo, ne facevamo di ogni, facendo rotolare le enormi bobine di carta ammassate pericolosamente le une sulle altre. Ora Giacomo si trova in Vescovado a Mantova, in qualità di vice vescovo o aiutante o ausiliare di quest'ultimo, magari è diventato vescovo a sua volta di un'altra città, o cose simili. Ammetto la mia ignoranza in materia, ma se lo incontrassi ne avremmo di belle da raccontarci.

Faccio un salto indietro perché in questa pagina ho voluto pubblicare altre foto relative al periodo in cui ho vissuto a Castiglione delle Stiviere; evidentemente un periodo molto particolare per me, per la mia crescita di bambino e di adolescente. Due tappe della mia vita fondamentali, sia in positivo, ma molto di più in negativo. Infatti, ancora oggi ne parlo e ricordo tutto con affetto e commozione, vero, ma ricordo quel periodo soprattutto per essere stato un'esperienza molto negativa, nefasta, distruttiva perfino, per la mia crescita. Ho sognato quella casa di Castiglione, in via L. Barzizza n° 70, fuori e dentro, soprattutto la stanza da pranzo e soggiorno, da dove guardavo fuori spiando dalle tende e dalla tapparella, con incubi che non auguro di provare a nessuno, e questo fino a pochi anni fa. Questo la dice lunga più di qualsiasi altro commento, sulla mia crescita. In quella villetta anni '60, costruita da mia mamma dopo la morte del papà Giuseppe Pavan, io ho vissuto i momenti più brutti della mia vita, e per questi periodi vissuti là dentro, da solo, i primi tempi senza una recinzione intorno, senza altre case introno che non fosse quella della famiglia Sarzi, senza tutte le villette costruite negli anni successivi, io in quella casa, per tutto quello che ho passato, subito, sono stato e rimasto a lungo traumatizzato. Ricordo come fosse ieri quando mia mamma partiva prestissimo la mattina per fare duecento metri e recarsi al lavoro, nello stabilimento di Wella che confinava per un lungo tratto della via, proprio di fronte a noi. Lei, con la sua collega Eles, aprivano lo stabilimento, chiudevano i cani nel recinto e si preparavano a fare le pulizie degli uffici, che non erano pochi, prima di ritirasi in cucina e dedicarsi a preparare i pasti da servire nella mensa aziendale. Capitava qualche volta che mia mamma mi portasse con lei, e io la seguivo dappertutto e mi divertivo un mondo con tutte quelle calcolatrici e calcolatori primordiali, e macchine da scrivere e telefoni con mille pulsanti che si trovavano sopra ogni scrivania. Per me era come essere su Marte, era come essere su un altro pianeta, e questo, per quel poco che contava, mi faceva sentire privilegiato. Dentro lo stabilimento di Wella, nella seconda metà degli anni '60 e fino al '72, tutti mi conoscevano, impiegati, operai e tutto lo staff dirigenziale formato tutto da tedeschi. Omaccioni alti due metri e grossi come due dei nostri, così mi apparivano allora. Ma tutti mi volevano bene, tutti sapevano che Enrica, la cuoca, rimasta vedova, ogni tanto portava dentro lo stabilimento suo figlio, il piccolo Mauro. Capitava qualche volta che nella cucina, dove non era molto ortodosso che io rimanessi a lungo, quando arrivava un dirigente, sempre tedesco, mia mamma e la collega mi nascondessero in qualche armadietto. Io ero abituato a questo e lo prendevo come un gioco, mi divertivo, ma soprattutto, ero con mia mamma.

La parte brutta di questa storia, e sono stati maggiori questi momenti, sono quelli trascorsi quando rimanevo da solo in quella grande casa nuova, ancora non finita del tutto, e non ancora recintata. Dopo che mia mamma usciva per andare al lavoro, io rimanevo da solo, e a questo punto incominciavano le “torture”. Ogni piccolo, minimo rumore che sentivo, e i rumori starni erano tanti, io mi bloccavo, non riuscivo più a muovermi, mi nascondevo sotto le coperte e stavo immobile, trattenendo il respiro per paura che qualcuno mi sentisse. Nella mia immaginazione, quella casa era piena di presenze strane, fantasmi, persone che camminavano per casa, di gente che si avvicinava alla porta o alla finestra, e io ero là, da solo, immobile, terrorizzato al solo pensiero di alzarmi e di prepararmi per andare a scuola. La paura che mi prendeva era così forte e ingestibile che spesso non riuscivo nemmeno ad alzarmi. Col tempo ho iniziato a marinare la scuola, a perdere il gusto di frequentarla. Sentivo che stavo facendo una cosa, quella sì, contro natura, tanto mi piaceva studiare, imparare, ma da solo, in quella enorme casa tutto il giorno da solo, non avevo gli stimoli giusti, mi distraevo facendo tutt'altro. In questo modo mi sono isolato, andavo a scuola malvolentieri e, una volta rientrato in casa, non alzavo nemmeno le tapparelle, stavo chiuso dentro casa al buio, aspettando le 17.30 che rincasasse mia mamma. Quella povera donna, che tanto mi adorava, e che non mi faceva mancare niente (bastava solo che chiedessi e quello che chiedevo si materializzava nel giro di pochi giorni), non si accorgeva di niente, tanto tornava a casa stanca, stanchissima, dopo molte ore di lavoro in cui, lo so per certo, a mala pena riuscivano a ritagliarsi il tempo per farsi un caffè. Di certo mia mamma e la sua amica erano delle vere privilegiate, nel senso che avevano tutto a portata di mano e potevano godere di tante cose che altri se le sognavano, ma le ore di lavoro erano davvero tante. Inoltre, la povera Enrica, sempre per non farmi mai mancare niente, si portava a casa dell'altro lavoro da fare, nei fine settimana soprattutto. Tra questi, il più ricorrente era quello di riempire le cartelle dei colori-tinte con piccole ciocche di capelli. Cartelle che andavano poi distribuite nei vari negozi di parrucchieri Wella. Insomma, mia mamma, credo lo facesse prima di tutto per me, ha sempre sgobbato tanto. Grazie mamma!

Difficile descrivere quest'esperienza senza rischiare che qualcuno pensi che stia scherzando o ingigantendo i fatti, ma non è così. I fatti, quelli veri, sono ben peggiori di quanto con le parole non riesca a descrivere, tanto hanno inciso nel profondo della mia personalità di ragazzo, ancora in una fase delicata e “artisticamente” plasmabile per il dopo, per ieri e per oggi, e per quel poco che mi resterà per domani. Vivevo chiuso in casa con il terrore che qualcuno mi vedesse, mi guardasse, mi giudicasse, mi additasse o parlasse in qualche modo di me. Guardate che questa terribile condizione in cui mi sono trovato per la prima volta all'età di 10/11 anni, in parte, per fortuna solo in parte, caratterizza, condiziona ancora adesso il mio comportamento, il mio modo di relazionarmi con gli altri, e con me stesso. Diffidente, sempre con il timore di essere giudicato, per questo sempre pronto a scattare al minimo, anche solo ipotetico, pericolo. Nemmeno la posta riuscivo ad andare fuori a ritirare quando il postino suonava il campanello. Io ero in casa, da poco rientrato dalla scuola, e mi affacciavo a spiare dai forellini della tapparella sempre chiusa, quella del soggiorno appunto, che guardava sul fronte strada, spiavo tutto da lì, e quando il postino se n'era andato, a piano, sempre col timore-terrore addosso, uscivo di corsa a ritirare la posta. Davvero da non credere, davvero al limite di un ricovero immediato, che forse, fatto allora, mi avrebbe giovato. A maggior ragione questo sforzo lo facevo nei tre anni successivi, d'estate, quando finite le scuole in seminario, passavo parte delle vacanze a Castiglione. Il copione era sempre quello, tutti i sacrosanti giorni; per questo, una settimana sembrava lunga un mese. Mia mamma era al lavoro, io in casa da solo che aspettavo con ansia smisurata, da caso patologico vero e proprio, che lei ritornasse, e anche che arrivasse, all'ora stabilita, una cartolina o altro da parte di Tiziano R. di Sommacampagna. Ogni giorno si ripeteva questo copione e, credetemi, solo questa attesa che si rinnovava ogni giorno, mi dava il coraggio e lo stimolo di andare avanti per aspettare la posta del giorno dopo. Conservo ancora oggi una cartolina per il mio compleanno spedita da Tiziano il 21 agosto del 1972; è una cartolina con sopra stilizzato un leone con gli occhi trasparenti in rilievo e con dentro due pallini neri che si muovono. Tiziano era bravissimo a giocare a calcio, a differenza mia, e la sua presenza nella mia vita di allora, ha giustificato e reso gradevole quei tre anni trascorsi alle medie in seminario, tante erano le occasioni per stare insieme o anche solo per sapere che si era lì, entrambi. Solo quello contava per me, e solo per questo io ero contento di fare ritorno in seminario la domenica sera o dopo una vacanza. La vita di collegio si sa, si trascorre e si supera intrecciando nuove e forti amicizie, legami particolari, magari tra gruppi rivali, ma questo è, da sempre credo, almeno questo dice la letteratura per ragazzi. E questo è stato quello che ho vissuto anche io, intensamente e come da manuale, ma senza mai oltrepassare quella soglia, che in tanti, ho saputo dopo molti anni, hanno allegramente superato. Anche Tiziano l'ha superata, così mi ha raccontato Luigi C. che da ragazzo, gracile e un po' “sfigatello” qual'era ( ricordo ancora con ribrezzo le dita che si metteva prima nel naso e poi in bocca), si è trasformato in un omaccione più largo che alto, e tanto ricoperto di uno strano prodotto oleoso su tutto il corpo da renderlo imprendibile e sfuggevole, un po' come capita con le anguille. Una metafora questa che mi ha permesso di non usare parole più dirette e meno carine. Stando a quello che mi ha raccontato Luigi, sembra che i due, Luigi e Tiziano, abbiamo entrambi superato insieme quella soglia. Mauro era troppo chiuso, pauroso, ingessato, timido, molto timido e per questo è sempre rimasto rigido e inamovibile, proprio come un baccalà, senza mai sciogliersi quando era il caso di sciogliersi e di rimanere sempre rigido quando sarebbe stato meglio lasciarsi andare, per darsi, per donarsi. Mauro ha sempre fatto, ancora oggi, tutto il contrario di quello che fa o farebbe una persona “normale”. Da vero masochista, ancora oggi, la storia per me si ripete che è una meraviglia, con le stesse modalità. Troppo tardi ora per pensare di porre rimedio, di illudersi che si possa cambiare, ormai non si può più, e ne sono consapevole fino in fondo, quindi avanti così.

Un'altra cosa che mi ha turbato e non poco, parlando sempre di quel periodo, una cosa molto delicata, ma credo fermamente molto determinante per l'impatto che mi ha lasciato, erano le pezze che si usavano quando una donna aveva il ciclo e che io avevo sempre davanti gli occhi nel bagno di casa. Io allora non sapevo niente di tutto questo, e mia mamma, di sicuro ingenuamente, non si poneva nemmeno il problema. Ma tant'è, colore e odore, ancora oggi vedo e sento come allora. Perché ricordo questo particolare come se fosse qualcosa di importante da raccontare? Per il semplice motivo, forse non tanto semplice, che questo ricordo che si rinnovava quando doveva rinnovarsi, mi sconvolgeva, mi imbarazzava, mi bloccava, e non avendo risposte, non venendo su questo “istruito”, povera donna di una santa madre qual'era mia mamma, io crescevo con questa forma di distacco e blocco verso l'intimità femminile.

Quello che qui racconto, con tanta sincerità, fin troppa direi, ma va bene così visto il mio rispetto verso la vita nel suo insieme, la vita nei suoi significati e nelle sue manifestazioni più eterogenee, lo faccio unicamente per chiarire la mia posizione attuale di uomo e di artista. Tutto quello che sono oggi è in gran parte frutto di quello che, con il cuore aperto e senza omettere nulla di importante, ha caratterizzato e formato, appunto, il mio carattere, il mio vissuto di giovane e di uomo. In tutto questo si è riflessa la mia arte. Quello che in arte ho sempre fatto e raccontato anche, compresa la mia infinita e costante e insaziabile voglia di continuare a cercare, di continuare a scavare, dentro di me e dentro il mondo che sta intorno a me, è frutto anche di questo spaccato di vita mia. Uno spaccato breve, ma fondamentale. A volte, sempre di più col passare del tempo, che significa con l'invecchiamento che avanza (spero nel migliore dei modi e di questo non mi lamento, anzi), estraniandosi da tutto e da tutti per meglio osservare e scrutare, pensare e meditare, con occhi e mente non più assoggettati alle sole esperienze del passato, ma con il fare libero e oggettivo di oggi, come ho imparato a fare con l'aiuto della psicanalisi e della meditazione – autoanalisi -, sento che sto per arrivare là dove sognavo di arrivare.

Chi salta il passaggio del mio passato non può capire i perché del mio presente.