Silenzio 21/4


Raccontato dall'autore

Questo racconto è stato estrapolato dal testo della mia presentazione, di uomo e di artista, scritto per il prof. Vittorio Sgarbi in merito al progetto ideato e voluto dalla dott.ssa Leonarda Zappulla e da Vittorio Sgarbi accettato e narrato, dal titolo: “I Narratori del Nostro Tempo”. Da questo progetto uscirà a fine anno un video in cui il critico d'arte racconterà brevemente cosa pensa di Mauro Pavan come artista. Tenuto conto che io quando parlo e scrivo dico sempre quello che sinceramente penso, davvero non so cosa aspettarmi da questo racconto-recensione dell'esimio professore. Potrei uscirne anche con le ossa rotte e, vista la premessa di cui sopra, in questo caso farò un mea culpa. Non so fingere, non so tacere la mia rabbia, i miei disappunti, non sono capace di fare il ruffiano e, consapevole di questo, mi assumerò ogni conseguenza. Intanto io dormo con la coscienza in pace, perché cerco di essere me stesso, sempre, anche non volendo. So bene di essere maturo, ma sono anche consapevole di non essere abbastanza maturo per la produzione di un eccellente passito. Quindi io lavoro, continuo a lavorare, a testa molto bassa, davvero molto bassa, ma quando mi si pestano i piedi, io la testa la alzo e pretendo che mi si chieda scusa. Per arrivare a questo, che è soltanto una tappa del mio cammino di vita, sto continuamente e affannosamente cercando di capire sempre meglio chi sono, e cosa voglio fare e diventare da grande. Ecco spiegato, almeno in parte, il senso di questo lavoro “Silenzio 21/4”, il senso di questa serie di lavori con lo specchio.

Il racconto che ho scelto di pubblicare per quest'ultimo lavoro, si basa su una sorta di questionario dove vengono poste agli artisti interessati a questo progetto una serie di domandine. La cosa mi ha fatto subito scoppiare dalle risate prima, e da una decisa e ferma contrarietà dopo, che non ho mancato di far notare. Mi è stato risposto che la maggior parte degli artisti non sa spiegare quello che fa, non sa presentarsi come persona e come artista, e non sa presentare in maniera ottimale il proprio lavoro; in sostanza gli “artisti” sono una massa di ignoranti o, quantomeno, poco preparati nello scritto e nell'orale. Da qui la “figata” di pensare all'invio di un questionario che aiutasse gli artisti a raccontarsi, rispondendo alle domandine di cui ne riporto due qui sotto. Mentre io avevo già incominciato a scrivere la mia presentazione, raccontandomi per filo e per segno senza l'ausilio di domandine precompilate, vedendomi recapitare questo decalogo con le domandine tipo esame delle elementari, ovviamente mi sono incazzato subito da morire, ma poi, che dire, alla fine hanno sempre ragione loro, e si cerca ogni volta di trovare la forza di andare avanti... Questo è, fintanto che il manico del coltello è in mano loro. Fintanto che si cerca di dire e raccontare di un artista e del suo lavoro, inutili cavolate giusto per scrivere le canoniche 10 righe, anche qui, sempre e comunque, per giustificare soltanto l'emissione della fattura a fine mese.

Se questa domandina è stata posta a chi dipinge paesaggi nostrani e nature morte nostrane, come credo che sia, ne sono più che certo, mi viene da spanciarmi dalle risate, come già dicevo, ma allo stesso tempo mi avvilisce e ferisce atrettanto. Una delle ultime domandine è la seguente:
Le tue opere hanno dei messaggi celati?

No, i miei lavori non hanno niente da “insegnare” a nessuno, per questo motivo vanno presi seriamente. I miei lavori non hanno pretese, non hanno messaggi da lanciare o inviare a nessuno, né in cielo né in terra, né celati né palesi. I miei lavori sono lavori e non opere, magari i miei lavori fossero davvero delle vere opere d'arte. Spero vivamente che lo diventino, ma per questo so che devo lavorare ancora molto. In ogni caso aspetto che sia il prof. Sgarbi a dirmi se, i miei lavori li posso chiamare “opere d'arte”, oppure no; e non sto scherzando, tanto è il rispetto che porto per l'opera d'arte e per il prof. Sgarbi. No, se ci penso attentamente, non credo che ci siano messaggi particolari da inviare, a chi poi? Io sono andato in psicoanalisi anni fa, cosa mai potrei dire di tanto importante agli altri, quando, per fortuna, io stesso so che ho ancora tanto da imparare, tanto da fare. Le somme si tirano alla fine del nostro ciclo vitale, non prima. Ogni somma che si tira prima di aver finito di fare i conti con la vita, è sempre parziale, sempre passibile di ulteriori modifiche; e non sarebbe mai attendibile, mai definitiva. Rimanendo dentro al mondo dell'arte, seriamente parlando, sappiamo bene che tutti i grandi artisti hanno attraversato il loro ciclo di vita parallelamente alla loro arte, e sappiamo altrettanto bene, che quello che si faceva prima ha determinato quello che è venuto dopo, ed è sempre stato così. Così facendo, di anno in anno, la produzione artistica di quel determinato artista si andava arricchendo di nuovo e di bello, maturava, sotto gli occhi suoi e di chi lo seguiva e riconosceva.
Posso cambiare la domanda? Per esempio: Quando dipingi, pensi che quello che ti smuove dentro e che ti fa scaturire l'interesse per fare un determinato lavoro possa essere di interesse - volendo puntare in alto -, e di aiuto – altrettanto in alto -, anche per altri? Non lo so, ma non credo, davvero, non lo so e non credo che altri possano ricevere messaggi particolari da quello che faccio. Sono sinceramente troppo concentrato su me stesso quando lavoro, ogni volta che creo qualcosa di nuovo.
Perché? Perché quello che faccio è un lavoro mio personale che si basa tutto su un percorso mio personale e, nella maggior parte dei casi, quasi sempre, non contempla la presenza o l'interesse verso altri. Che poi, alla fine di tutto, al netto di tutto, quello che faccio per me risulti di interesse o, ancor meglio, risulti essere di aiuto anche agli altri, ben venga, ne sarei molto contento, nel senso di intendere questo mio stato d'animo più come lo intenderebbe San Francesco che un qualsiasi altro bravo psicologo dell'arte. Io non vado cercando glorie effimere per il mio corpo o per il mio portafoglio, cerco glorie per il mio spirito, casomai. Quando io penso, rifletto, mi pongo domande, sintetizzo, formulo soluzioni grafiche e scelgo i toni dei miei colori, tutto questo non prevede che io mi interessi di lanciare o inviare messaggi a nessuno. I messaggi che lancio, lo ripeto, li lancio a me stesso; al limite, si prega di continuare a leggere fino in fondo. Non per questo, chi vuole, chi è interessato ad un confronto, a fare con me due chiacchiere, può chiedermi cosa cavolo ho voluto dire con quello che faccio, ci mancherebbe, mi farebbe molto, davvero molto piacere raccontarmi per mezzo dei miei lavori. Ma ciò non significa che io parta da questo, dal voler mandare messaggi in giro per il mondo; ma stiamo scherzando? Troppo ho ancora da imparare, da capire e da definire, prima di permettermi il lusso di mandare messaggi in un al di là che non sia il mio di qua. I miei lavori sono un percorso, basta guardarli per bene in sequenza l'uno di seguito all'altro e, per capire questo, urge un bravo interprete. Solo così si capisce il lavoro immane che ci sta dietro a questi ultimi cinque anni di work in progress, di continuo e spasmodico interesse nel voler dire e fare, per recuperare, per arrivare a capire tutto, per concludere questa vita avendo trovato le risposte che cercavo. E' una pia illusione, ma ci sta, è un percorso doveroso perfino, che fa parte della nostra ricerca e coscienza di uomini ancor prima di quella di artisti. L'introspezione per mezzo dell'arte, è una sorta di terapia personale che un povero artista, emarginato sociale a tutto tondo, “Io”, mette in atto per se stesso, e solo per se stesso. Al massimo io posso raccontare quello che sono e cosa voglio fare e diventare da grande, ecco, questo posso farlo. Infatti, in tutti o quasi i racconti in questo mio sito web pubblicati, sono delle vere e proprie confessioni, fatte apertamente senza provare vergogna per nulla e senza timore che qualche imbecille (quelli prima o poi saltano sempre fuori allo scoperto), li possa usare per darmi contro. I questi o altri simili a questi, ancor prima che perdano il loro tempo per mettersi di traverso con me, dico apertamente e col cuore in mano: chi se ne frega e, se non bastasse, il mio augurio per il più bel vaffanculo che possano mai aver ricevuto. Se poi, dopo aver raccontato chi sono, cosa faccio, cosa voglio, dove voglio arrivare, qualcuno si impietosisce e mi chiede di spiegare “i miei perché“, beh, allora, già questo e solo per questo, io sarei davvero contento. Ecco perché il santo Francesco ancor prima del santo psicologo. Racconterei chi sono, cosa cerco, e dove voglio arrivare, questo sì, ma questo è un messaggio?...
Sono sicuro, convinto, che da qui partirebbe un fiume di altri discorsi, di interessi nel formulare continuamente domande, e avanti così all'infinito. Tutto molto interessante, tutto molto bello, molto poetico, molto artistico financo, molto figo, ma, al netto di mille discorsi, io avrò raccontato sempre e solo la mia storia, la mia esperienza, che resteranno sempre e solo mie. Avrò raccontato i miei sogni, i miei desideri, le mie paure, le mie angosce, avrò chiarito cosa sto cercando e dove sono diretto io, ma, al netto di tutto, avrò raccontato “solo” la mia vita, le mie passioni, avrò chiarito cosa sono interessato a chiarire a me stesso, quindi torneremmo tutti al punto di partenza; vale a dire che i miei lavori non raccontano niente di utile a nessuno, se nessuno li vuole sinceramente penetrare. E' già tanto che raccontino qualcosa di convincente a me, pignolo come sono, mi accorgo quando un lavoro, più di un altro, mi racconta balle, e non mi soddisfa come avrei voluto mi soddisfacesse. Quando un artista sa fare questo, a capire questo con onestà e serietà intellettuale, basta così, significa che stai là, nel senso di “al di là”, al di sopra, in alto.
No, non credo, vorrei sbagliarmi ma davvero non credo che i miei lavori possano ambire a tanto, a raccontare o a lanciare messaggi utili al prossimo, vediamo, magari in futuro, non so. Anche qui una “botta” importante, a volte fondamentale, la dà chi l'arte la maneggia diversamente da come la maneggio io; magari colui che in questo momento mi sta leggendo (?).
L'unico messaggio che potrebbero raccontare i miei lavori è quello di non raccontare niente, nel senso di essere guardati con l'occhio di chi sa guardare raccogliendo messaggi artistici e non solo, senza però immischiarsi troppo nei miei affari privati; perché anche questo è possibile!

Ultima domandina del questionario che trovo a dir poco assurda, ingenua, e un tantino fastidiosa, tanto è banale per quanto risulti banalmente elementare:
Tra le opere che hai creato quali sono quelle che senti più tue, più vicine alla tua sfera personale ed emotiva?

Il mio sano cinismo di artista-pittore, mai soddisfatto peraltro, sempre in cerca di nuove esperienze, sempre come anima in pena in cerca di risposte, desideroso di migliorarsi sempre di più, perché là, vuole arrivare, lassù vuole arrivare, non mi ha mai portato ad innamorarmi di un lavoro più di un altro. Ogni lavoro che ho fatto va ricondotto (questo è quello che faccio e come ragiono io), ad un determinato momento della mia esperienza di vita. Per questo assume un valore, il suo valore, quel determinato valore, che non potrà mai essere maggiore o minore di un altro valore appartenente a lavori diversi e di altri periodi.
Guardando i miei lavori si capisce immediatamente che gli stessi sono il mio alter ego. Passo dopo passo, minuto per minuto, giorno e mese dopo giorno e mese - figuriamoci gli anni -, io maturavo e, di conseguenza, maturavano anche i miei lavori. Dovrei dire che gli ultimi sono migliori dei primi, no? No, non è così! Quando io guardo un lavoro di venti o trent'anni fa, ma fosse anche uno di dieci anni o quarant'anni fa, io ricordo e rivivo quei momenti e, solitamente, li rivivo e li ricordo con l'intensità originale di allora. Tutto fa parte della mia vita, bella o brutta che sia stata, è stata la mia vita; la vita che passo dopo passo mi ha portato fin qui, ad essere quello che sono. Da terrorista dell'arte io non abiuro nulla di ciò che ho fatto con le mie mani. In ogni singolo mio lavoro c'è dentro un pezzetto del mio percorso artistico, che altro non è se non un pezzetto della vita mia.
Posso io, da genitore, da generatore di lavori artistici, fare una scelta per definire quali, tra tutti, sono stati migliori di altri? Non riesco, non saprei che dire. Ciascuno ha una sua storia, ma, per non sottrarmi alla domanda, smettendo i panni del genitore-generatore e vestendo quelli del professionista serio, e su questo voglio essere franco fino in fondo, dico che ci sono lavori che ritengo meglio riusciti di altri e, alcuni, non soddisfacenti per niente. In quest'ultimo caso, la fretta, è stata una cattiva consigliera. In quest'ultimo caso c'era quasi sempre di mezzo la fretta di fare, di finire; la fretta di dimostrare. La fretta genera solo pasticci, nel mio caso, per ora, in questo momento, la fretta ho deciso di lasciarla fuori dalla porta del mio bilocale. La fretta non è solo la causa di tutti i mali, a volte, in certi casi, la fretta è stata la vera vincitrice e la soluzione perfetta che ha generato capolavori assoluti, ma non è il mio caso, non ora. Io ho ancora bisogno di meditare, di ragionare, di misurare – ecco che la scuola ritorna -; per ora ho ancora bisogno dei miei canoni, sempre meno, e questo ci tengo a sottolinearlo. Mi sono imposto, da alcuni anni, che non deve più importarmene niente della quantità, assolutamente niente, ma che è sulla qualità di ciascun pezzo che devo prestare il massimo dell'attenzione; poco amore, e tanto rigore (amore + rigore = perfezione). Questo sta succedendo adesso, in questo momento che sto scrivendo questo testo per Vittorio Sgarbi, dopo aver terminato “Punto Luce 21/6”, da circa un mese ormai, sono fermo. E' vero che in questo periodo ho avuto altre cose per la testa - a proposito di concentrazione -, è vero che il prossimo lavoro sarà il seguito del precedente, ma deve essere anche il precursore del prossimo futuro, sempre diverso da ciò che è stato prima. La diversità deve essere una costante, e questa diversità, che altro non è che ricerca allo stato puro, spiega e funge da trait d'union tra il prima e il dopo, tra il mio passato e il mio presente. Del resto un ricercatore dell'arte studia e fa ricerca senza sosta, perché la ricerca, qualunque essa sia, non ha tempo, non ha limiti, non ha bavagli, non ha lacci, non si pone più nemmeno il problema di tenere a bada l'etica. A proposito di etica, ho l'impressione che Socrate si rivolterebbe nella tomba, vedendo come siamo ridotti oggi, etica e morale sempre indietro a rincorrere il profitto, sempre in fondo alla classifica: che miseria!
Alcuni lavori sono frutto di un sogno, per esempio: “Copriti nonna”, o “Incubo 17“ del 2017 appunto , altri, frutto di meditazioni sulla mia psiche, i miei mutamenti antropologici, nel senso di evoluzioni della mia personalità, come ad esempio “Cuore rosa“ del 2017, un sincero e completo riassunto di vita. Uno in particolare nato dopo un viaggio a Palermo, “La luce rosa 18/5”. Un altro, “La luce rosa 18/6”, creato pensando al dipinto di Giorgione “I tre filosofi”, dove ho voluto sintetizzare, enfatizzandone il colore e i “ruoli”, i tre misteriosi personaggi del grande pittore di Castelfranco Veneto rappresentati. Sempre Giorgio Zorzi è stato l'ispiratore di un altro lavoro, “Dio mio!” del 2018. Adesso, giusto per rispondere alla domanda in maniera più approfondita, vi racconterò cosa dello Zorzi ha solleticato e sollecitato la nascita di questo lavoro. Vi metterete a ridere, e mi darete del pazzo, forse, ma questo non mi sposta di una virgola. Se così sarà, avrò fatto centro, perché se così sarà, questa è la spiegazione più lampante di cosa significa essere un artista fin nelle viscere, fin dentro le pieghe della propria pelle, dentro ogni capello, visto che non ho peli ma solo capelli. Quando da piccolo facevo le medie in seminario a Verona, andai in gita scolastica a Possagno per vedere e conoscere il Canova, inoltre, a Castel Franco Veneto per vedere la meravigliosa pala della madonna del Giorgione all'interno del duomo. Ebbene, io ricordo che rimasi subito rapito nel profondo, ma davvero, credetemi, davvero nel profondo del mio cuore e della mia mente, nel vedere quel meraviglioso tappeto verde, di quel verde un po' “marcio”, con quelle righe rosse ai lati – non a caso -, piegato verso il basso e su cui siede la regina delle regine – detto prosaicamente -, la madonna col bambino. Quel tappeto, cosa incredibile, mi è rimasto stampato nella mente come “il tappeto” per antonomasia. Da allora, quando penso ad un tappeto, io penso a quel tappeto. La sua modernità, se vogliamo, sta nella semplicità del disegno, essenziale, pulito, e poi in quella tonalità di verde veneto-veneziano, che è davvero una meraviglia di colore. Ecco che nel mio lavoro ho voluto riproporre una sorta di donna-madonna, nera, ma rossa, con bambino nero, ma rosso, spiati dall'alto, magari da un drone, seduti sopra un tappeto verde e rosso. Madonna con bambino seduta sopra un tappeto, punto! Questo il mio lavoro, e nel mio lavoro, a differenza di Giorgione, non c'è la filosofia teologica che rimanda al di qua e al di là di questi tre mondi, sacri e terreni, ma c'è semplicemente la miseria, doverosamente nobilitata e divinizzata, di una donna-madonna, che cerca, si illude – da vera madre -, di allattare un bambino, e non è detto che sia suo figlio. Anche se priva di qualsiasi sostanza nutriente, la donna-madonna non rinuncia per niente al mondo, di svolgere il suo compito di madre. Le lacrime che sgorgano dagli occhi di quel povero figliolo sono la chiave di lettura di questo dipinto. Una metafora che prelude al dramma finale, la morte; una sorta di crocefissione metaforica preannunciata, mentre gli occhi di questa madre restano asciutti, come sono asciutti, ormai, i suoi seni; lei è già morta dentro, da sempre.
Una cosa importante da dire, ma guardate che non è solo importante, è fondamentale da capire, è che io, quando lavoro, oltre ad arrovellarmi il cervello a forza di pensare, a forza di impostare le giuste proporzioni, le giuste tonalità di colore, io, in mezzo a questo vortice da intellettuale di basso profilo, io mi diverto anche tanto. Il piacere che provo quando lavoro è indescrivibile. E' un piacere simile all'orgasmo, perché si mescolano battito del cuore e gioia pura che si prova per quello che si sta facendo. Questo è davvero impressionante, davvero fantastico, indescrivibile. Lavorare non è mai solo fatica mentale, noia e routine, ma anche tanto fermento interiore che provoca una sensazione di estremo benessere, di appagamento dei sensi; una sorta di tranquillità e felicità interiore simile a quella di un innamoramento perpetuo. Pensandoci, oltre al battito del cuore, c'è anche il battito della mente che esulta. Ne esce un mix di gioia pura, una gioia – Vito Mancuso mi sconsiglia di usare la parola felicità -, che potrebbe perfino bastare, ma non è così. Io non mi sento mai appagato di nulla, vivo come se mi mancasse sempre qualcosa. Eternamente insoddisfatto, eternamente innamorato, eternamente ligio e determinato nel portare a termine i miei lavori, il mio ruolo di... – aspetto che me lo dica l'amico Vittorio -.
Se un artista non si diverte quando lavora, quando crea, vuol dire che quell'artista non sta creando una cosa bella.

L'insostenibile leggerezza dell'essere, non solo a Praga, anche a Verona.

L'insostenibile confronto con lo specchio, anche in carcere, sotto le lenzuola, dentro il buco di un culo, dappertutto.
Se vuoi conoscere davvero chi sei, non fare tutto da solo, non ridurre questo fondamentale quesito, che attanaglia tutti noi, solo a continue seghe mentali. Mettiti davanti allo specchio, pulito, e senza suggerire le risposte, lascia che sia lo specchio a darti le sue, in totale autonomia e libertà d'espressione. Lascia che sia lo specchio a parlare, tu, almeno per un momento, taci, ascolta e fai tesoro del responso.

L'insostenibile leggerezza dell'essere, non solo a Delfi, anche a Verona.

Vorrei tanto potermi occupare solo di arte, di pensare e di vivere solo per l'arte, ma sembra che non sia possibile, che non si possa. Troppe le miserie di questo mondo che ci affliggono, e che non mi lasciano indifferente. Fatica doppia per me, lavorare in questa situazione. Mi chiedo spesso come si possa oggi permettersi il lusso di dedicarsi totalmente all'arte con tutta la nostra l'anima, quando il cervello è subissato da mille altri problemi, nefandezze, sporcizia sociale. L'anima dovrebbe potersi muovere liberamente, in totale autonomia, e accompagnare il cervello, con sincerità d'intenti e armonia di forme e colori, verso l'infinito, verso la verità, cercando sempre il bello.
Com'è possibile rimanere indifferenti a questo degrado sociale e spirituale, occupandosi solo di arte? Io non ce la faccio, proprio non riesco a rimanere indifferente a quello che mi accade intorno, devo lottare, mi distraggo per questo, mi devo isolare per risolvere e superare questo. Mi si risponderà che il disagio di fare arte e di vivere la vita in società è sempre esistito, e a questo non oppongo obiezioni di sorta, lo so bene. Ma io sono fermamente convinto che ad un livello così basso come quello che stiamo vivendo da qualche decennio a questa parte, nessun artista sia mai arrivato, si sia mai confrontato. Qui non si parla solo di corruzione, di intrighi tra potere temporale e spirituale, di lotte politiche tra stati e i conseguenti cambi di casacca, qui si parla di morte del pensiero, di annichilimento di massa, di relegare la cultura ad una forma di hobby nemmeno tanto necessaria e indispensabile per la vita che ci stiamo dando da un po' di tempo a questa parte. Io avverto una scioltezza e disinvoltura spaventose di massa, verso tutto ciò che porta le persone a sragionare; e io, di questo, ho tanta paura.
Detto questo, è vero che la testa contiene un cervello che serve per pensare e per evolverci – se mantenuto in gran forma -, ma il corpo è formato anche da una pancia e da un culo che, a loro volta e giustamente, rivendicano il loro diritto di esistere e dire la loro. È tanto difficile capire che testa, pancia e culo, fanno parte della stessa persona? La persona è una e una sola, non è fatta solo di una parte di destra o di una parte di sinistra, e nemmeno è fatta di una sola parte centrale. Una persona è fatta di tutte le sue componenti unite tra loro che, all'occorrenza, si usano indistintamente nel rispetto di ciascuna di esse, indipendenti, ma complementari le une alle altre. Perché è così difficile capire che non è del tutto sbagliato parlare anche alla pancia, come non è sempre giusto rivolgersi sempre alla testa? In tutte le forme d'arte, la componente istintiva è fondamentale. L'istinto, prima che arrivi in soccorso la ragione, aiuta la ragione quand'è arrivata, a non ragionare troppo.
Non amo le barzellette, non capisco quasi mai le barzellette, sono negato a raccontare le barzellette, ma... Mentre scrivevo tutto questo po' po' di roba, venerdì 28 maggio mi è venuta in mente questa cretinata, forse mentre guardavo i gabbiani che volano sull'Adige di fronte a dove lavoro e vivo e, visto che ho riso tanto da solo, ho pensato bene di mettermi anche un pochino in ridicolo con chi mi sta leggendo, dopo essere stato fin qui esageratamente serio, senza temere, peraltro, giudizi di nessuno.
La cretinata è questa:
- Buongiorno, vorrei un cannocchiale per ammirare gli uccelli da lontano. - Molto bene signore, guardi, con questo, un uccello lontano 200 m è come se fosse a 2 m da lei.
- Ottimo, ma si possono vedere gli uccelli ancora più da vicino?
- Certamente signore, con questo che è nuovo e appena arrivato, un uccello distante 200 m è come averlo in bocca, le può andar bene?
Scusate la caduta di stile, del resto sono anch'io un semplice essere umano che di tanto in tanto, mai senza eccedere, per carità di Dio, gode di piccoli scampoli di vita fatti di cazzate.
Oggi, 29 maggio, ho sentito Leonarda Zappulla, Palermo ha chiamato Verona – che meraviglia! -, ci siamo scambiati le nostre solite opinioni sull'arte, sulle quali rimangono le nostre divergenze, ma ringrazio Lea per la bella frase finale con la quale mi ha lasciato. Mi ha insegnato (chissà che a forza di dai e dai non mi entri nella capoccia), che è doveroso essere sempre ottimisti, e di puntare sempre molto in alto, anche solo per lo scambio di un saluto tipo: “Ti auguro una meravigliosa giornata”. Puntare a cento per arrivare a settantacinque, difficile da capire per uno come me, ma ci proverò.
Grazie Lea, grazie di farmi entrare in alcune pieghe della tua vita. Grazie, perché hai la capacità e la forza di sopportarmi, grazie!
Oggi 3 giugno 2021 ho terminato il mio ultimo lavoro che, inizialmente, volevo continuare a chiamare, intitolare “Punto Luce 21/7”, ma poi ho avuto un attimo di ripensamento, di disorientamento, di riflessione, perché ho capito che ora non è più solo “la Luce” che smuove il tutto, ma dentro a questo tutto, quest'ultimo tutto – anche per il precedente Punto Luce 21/6 -, c'è altro. Credo sia arrivato il momento di voltare pagina. Da quando lo specchio ha preso il posto della “Luce”, da quando la riflessione, l'introspezione e l'esame di coscienza hanno preso il posto della “Luce”, da quando non è più solo “la Luce”, l'unica protagonista di questi lavori, questo nuovo tutto, diventa altro. Altro che, più che sostituire “la Luce”, la incorpora, la fa sua e la mette dentro a tutto il resto; un resto più ricco, fatto di più cose, un resto che pian piano sta diventando, forse, davvero tutto. Un resto che va a sostituire “la Luce”, la trascende e te la ribalta, te la ritorna indietro piena di molto altro ancora. Meglio, quasi indispensabile suggerisce l'autore, se tutto questo avviene in “Silenzio”.
Io suggerisco di guardare i miei lavori in silenzio, non perché ritengo che la dialettica vada esclusa dal contesto, anzi, la dialettica è necessaria, fondamentale, per arrivare all'enunciazione finale; proprio per questo, in questo caso, tutto è già stato detto, discusso, posto a confronto, confessato. Per questi motivi ora dico basta! Per questo, ora chiedo di fare silenzio! Ora è arrivato il momento del silenzio, della riflessione appunto, che esclude ogni altro rumore, suono, chiacchiericcio, battibecco, ora basta, stop! L'introspezione è, prima di tutto, un atto d'amore verso noi stessi, un atto della coscienza che consiste nell'analisi diretta, senza filtri, della propria intimità, che è interiorità – l'anima -, ma non solo. Altri sono i fattori che entrano in gioco in questa intima comunicazione tra te e te. Il pensiero, i sentimenti, i desideri, le pulsioni, le paure, le debolezze, in poche parole la nostra vera identità. Siamo sempre lì:“chi sei, cosa fai, dove vai, cosa vai cercando”? E come diceva Socrate, tutto il sapere è vano se non è ricondotto alla coscienza critica del proprio “io”. Se ne ricava che solo dopo aver raggiunto questo obiettivo – autocoscienza -, per niente facile da raggiungere, si arriva alla conoscenza piena di ogni sapienza. Sempre per restare in una posizione di privilegio, seduti a conversare con Socrate, egli ci ricorderebbe sovente la sua massima: “Conosci te stesso”. Volendo dire che solo e grazie alla conoscenza di sé e dei propri limiti, l'uomo diventa sapiente e virtuoso, presupposti per avere una dignità morale, impalcatura architettonica indispensabile per tenere l'uomo sempre in posizione eretta. Studiare se stessi, indagare me stesso, è una notevole acquisizione personale, ma anche altro, molto altro. Giungere a concepire se stessi con questa chiarezza, direi anche con un sano compiacimento per il lavoro svolto, e se ben fatto tanto meglio, è davvero molto importante. Uno guarda se stesso dall'esterno – così funziona -, magari con l'aiuto di uno specchio, e si guarda, si ammira, come fa un pittore quando si distanzia dal suo lavoro – io lo faccio molto spesso - e lo osserva, lo scruta, lo ammira e si dice: ecco ho ottenuto quello che volevo, ho fatto un altro passo avanti per arrivare là in fondo, per arrivare alla meta che mi sono prefissato di raggiungere. Se vogliamo vedere e analizzare tutto questo sotto il profilo di una sorta di narcisismo, che parte in primis dall'autore e all'autore si riferisce, è bene tener presente che, pur non essendo il sottoscritto mosso da una primaria forma di narcisismo fine a se stesso, non nego che un briciolo di narcisismo sano – quello buono come il colesterolo -, è senza dubbio presente in me, e come potrebbe mancare. Dico anche che quello che mi sprona a scrivere con così tanta passione di quello che faccio, non è una forma di auto-narrazione fine a se stessa, tutt'altro. I miei specchi non sono specchi messi nel loro posto giusto così, tanto per celebrare la gloria mia o quella di chissà chi altro, ma sono specchi terapeutici, servono per guardarsi dentro e riflettere, non sono qui per mostrarci, per esaltare le nostre manie di malsana autostima, che è spesso fonte di disagi e malesseri interiori, se non addirittura, per nascondere le nostre fragilità e stati di inadeguatezza. Gli specchi, casomai, esaltano, e giustamente, la nostra parte di narcisismo sano, un narcisismo equilibrato, che serve, eccome se serve. L'autostima è una buona cosa, ci mancherebbe, non deve però schizzare troppo in alto, diventa presunzione, arroganza, cela, sicuramente, problematiche che appartengono alle nostre fragilità e debolezze. Sembra un paradosso, ma l'eccesso di autostima ci causa danni enormi, perfino irreparabili, se non riusciamo a tenerla a bada, se non riusciamo più a controllarla, a tenerla a freno q.b.
Il narcisismo sano è un bene, ci serve anche in funzione di progredire al meglio con l'arte che facciamo. Infatti, mi chiedo, alla luce di questi più o meno nobili insegnamenti, che arte sia quella di chi non si è mai sintonizzato sulla frequenza di Radio Delfi 24. Impara ad ascoltare il tuo Oracolo. Impara a guardarti allo Specchio. Impara a trarne beneficio e, di conseguenza, anche la tua Arte sarà più vera, più credibile, migliore, più bella.
E' con il silenzio che si riflette che ci si ascolta, che si fa l'esame di coscienza. E' nel silenzio che ci si immerge con anima e corpo per scrutarsi dentro, liberamente, senza ipocrisia, senza timore, impossibilitati a barare. E' il silenzio che, casomai, fa rumore incasinandoci la mente, creandoci scompiglio, destabilizzandoci, condizione indispensabile per guarire, e ritornare a vivere più serenamente. Tutti dobbiamo stare più sereni, non solo Enrico...
Ritengo pertanto che il silenzio sia l'elemento fondamentale, se non imprescindibile, per dire tutto quello che con le parole abbiamo già detto abbondantemente, e forse troppo, e spesso inutilmente.
Il silenzio deve diventare la chiave di accesso, la password, senza la quale non è possibile accedere a questo misterioso mondo fatto di conscio e inconscio, e con esso interagire onestamente, ...in silenzio, possibilmente.
Sabato 29 e domenica 30 maggio ho terminato l'ultimo lavoro, alla luce di tutto quello fin qui detto, ho pensato e ripensato, ho deciso alla fine di chiamare questo mio nuovo figliolo “Silenzio 21/2”. Ora torno a mettermi nei panni del pittore per dirvi che la scelta dei colori, di questi colori, non è stata una passeggiata. Per tre volte ho dato e ridato il colore che forma questa specie di croce, che altro non sono che le coordinate che determinano il punto focale sul quale convergere tutte le attenzioni del caso. Il punto d'incontro, quello focale, che qui è lo specchio. Il punto cruciale per meglio intendere e volere se si vuole intendere e volere. Queste due fasce che si incrociano determinano il punto X. La tonalità di queste due fasce doveva provenire dalla stessa materia che ha generato il mondo che sta sotto di esse, l'infinito mondo dell'introspezione in cui sono presenti le ramificazioni del nostro sistema nervoso che stanno nel nostro cervello, quelle che determinano azioni e reazioni e che scatenano in ciascuno di noi tutti i nostri mali e il nostro buon umore. La riflessione che facciamo con il nostro esame di coscienza, che si traduce visivamente in un marasma vero e proprio di terminazioni nervose e artisticamente molto bene rappresentate da colori cosmici, i colori della psiche, diciamo pure i colori dei matti, è qui rappresentata dalle molteplici linee dai toni che nascono dall'unione del verde con il blu. Da quello che era già fatto e ben consolidato – accettato -, si doveva trovare una tonalità più forte, più incisiva, che determinasse il punto di arrivo in cui tutto deve convergere e risolversi, terminare, il punto focale. Ma questa tonalità non poteva e non doveva prevalere né da una parte né dall'altra, doveva ben rappresentarle entrambe, il verde e il blu, e allo stesso tempo enfatizzarle degnamente, con dignità e autorevolezza scientifica. Dopo tre tentativi, la tonalità che ne è uscita mi ha soddisfatto e quando questo accade, un bravo pittore se ne accorge, e ne gioisce; si discosta, in silenzio, e guarda, riflette, ammira, e si compiace narcisisticamente. All'interno di queste coordinate, che niente hanno a che fare con la croce - mai pensato ad una banalità simile -, ho voluto enfatizzare i tratti, i segmenti che di questo esame di coscienza sono stati fondamentali per determinare anch'essi la focalizzazione del punto X. Questi segmenti, presi a prestito dalle più importanti terminazioni nervose, che si muovo all'interno di tutto il nostro sistema nervoso, sono però i segmenti che mi hanno permesso, e che permettono a ciascuno di noi, di arrivare più facilmente alla conclusione di questo micidiale e massacrante, ma vitale, rapporto tra noi che stiamo di qua e l'altro io o l'altro noi, che sta al di là dello specchio, oltre frontiera, con altre radici, forse, probabilmente.
Tra le tante domande che mi sento fare, non ho mai sentito farmi una domanda fondamentale, dal punto di vista prettamente artistico, non storico, filosofico o esistenziale, no, niente di tutto questo, ma una domanda che sarebbe molto pertinente con l'arte, con quello che faccio io e che dovrebbe suscitare curiosità in chi dice di parlare in nome dell'arte. La domanda potrebbe essere questa: Mauro, perché nei tuoi dipinti lasci sullo sfondo sempre una traccia di quello che ci sta sotto, di quello che sta “dietro” le quinte del dipinto, di quello che fai? Perché sotto a tutto l'impianto scenico che tu esprimi, racconti e componi, si notano tracce di qualcosa d'altro che non si capisce bene il perché di questa presenza, scelta? Ecco, questa sarebbe una domanda interessante se qualcuno si prendesse seriamente a cuore di analizzare per bene i miei lavori, ma non è così così. Nessuno si interessa di sapere, di chiedere, di informarsi, nessuno, niente, purtroppo.
Ve lo racconto io allora, vi informo io allora, e chissà che vi si smuova qualcosa dentro che pensavate fosse già pieno di tutto, e invece chiarisce che c'è ancora spazio per immagazzinare di nuove. Quelle tracce di “residuo” che emergono, che affiorano da sotto, hanno due spiegazioni, una pratica e una che si accompagna e giustifica con un concetto solo apparentemente semplice, ma che non lo è. La spiegazione pratica e quella che io, con queste stesure di colore, comunque sia, sempre mirate e studiate, recupero i vecchi colori che mi sono rimasti dai precedenti lavori già fatti, e in questo modo, li riutilizzo dando loro una seconda possibilità di vita, di dire ancora una volta la loro, di fare ancora una volta la loro parte, invece di aspettare che si secchino per poi gettarli stupidamente via. La seconda spiegazione è che quando penso ad un nuovo progetto artistico, penso e voglio pensare di ottenere un lavoro a me contemporaneo, pur con la consapevolezza che quello che sto pensando di contemporaneo non può prescindere del tutto – almeno così è finora -, da quello che è già stato fatto e vissuto nel passato. In pratica, io respiro e vivo oggi, nel mio presente, portando dentro di me il mio passato, sempre. Questa non è una teoria che cancella, annulla altre di pari valore e di pari dignità di esistere, in gran parte già esistite e in gran parte già morte anche, ma questa mia teoria, che sento davvero molto mia, molto radicata in me, mi fa pensare all'oggi e al domani, con tutto il supporto, il carico da novanta che io mi sono aggiudicato immergendomi anima e corpo nel passato. Per questo, io sento il bisogno di omaggiare sempre il passato, trovando sempre una maniera per inserirlo nel presente; per non dimenticarlo, per fare in modo che ci sia sempre una traccia del passato che rivive nel presente. Quelle tracce che emergono da sotto, dall'oltre tomba, da un'altra vita, da altre esperienze, altro non sono che le esperienze già materializzate per la sapienza di altri, e che io ho respirato, ho visto, studiato e fatte mie, mie per sempre. L'aria che si respira quando si entra nel modo dell'arte, passato antico o passato più recente che sia, l'odore, il sapore di certa arte, io non riesco a togliermelo dalla testa, dal naso, dalla bocca; un po' come capita con l'odore del sesso, una droga sana e divinizzata per tutti e in ugual misura, da Madre Natura. Ho il piacere, e vivo del piacere, di godere ancora di questi antichi e vecchi sapori, colori, rumori, profumi; anche dei più peccaminosi, e riferendomi all'arte che conta, di quelli che venivano ai loro tempi, definiti come demenziali. Questo il senso di queste tracce che devono emergere ed avere il loro spazio oggi, per complementare e meglio definire ciò che definiamo essere contemporaneo. Il contemporaneo include il passato, e meglio lo include, più credibile risulta il contemporaneo. Il contemporaneo si rafforza quando include il passato, che è sempre lì, o molto ben nascosto, apparentemente invisibile, o, come nel mio caso, seminascosto, ma pur sempre presente. Tintoretto e Mauro Pavan ne sono la prova. Il primo anticipava e il secondo non dimentica, ricorda; il risultato è lo stesso? Qui mi fermo, non voglio esagerare, in “silenzio”, aspetto il verdetto finale. Ecco, questa era una domanda interessante da fare, ma tant'è, ci sono qui io a raccontarmi, a porre rimedio. Come spesso vado ripetendo, il divertimento di mescolare i colori, la fatica e il piacere di trovare nuove tonalità mescolando tra loro colori che andrebbero altrimenti gettati via, se non si è pittori, artigiani del colore, non lo si può capire. Non lo capiscono i critici e non lo possono capire nemmeno gli interpreti dell'arte, a meno che non abbiano avuto la voglia, l'intelligenza e l'umiltà, e un pizzico di fortuna, di passere ore e ore accanto ad un artigliano dell'arte, ad un artista; cosa che faccio fatica a pensare sia mai stata fatta da alcuno.

Errare humanum est. Fare degli errori quando si dipinge, quando si recita, quando si canta o si balla, capita. Fare un errore o degli errori quando si lavora - estensione del fare arte -, capita, l'importante è sapervi porre rimedio e magari, senza che nessuno se ne accorga; critici, interpreti e soloni dell'arte compresi. Voglio dire, a chi dice di saper leggere o di saper interpretare un'opera d'arte, che ci sono cose, particolari, cose e fatti non leggibili, che nessun critico può conoscere, quantomeno non sempre. Si può supporre, intuire, cogliere un fatto avvenuto e poco visibile, ma non si può cogliere-leggere tutto. Solo l'artista conosce la vita e la morte - fine delle trasmissioni-, dei lavori che ha fatto. E qui si torna necessariamente a parlare del ruolo, dell'importanza, di avere a che fare con un vero artista o con una misera mistificazione di quest'ultimo. Un fagiolo è un fagiolo, un cecio è un cecio e un pisello è un pisello, basta fare confusione, basta!
Non credo che tutti i critici e gli interpreti dell'arte siano incapaci di intendere e di volere, non lo credo affatto, quindi, per interessi di bottega, quando fanno finta di capire troppo, spesso e molto volentieri, sono semplicemente in mala fede, e si ripetono rendendosi ridicoli e non credibili, ma pure loro fanno parte di un gioco, di un sistema che a sua volta li fagocita tanto tanto fagocita gli artisti o chi si ritiene tale.

Essendo lo specchio, in questo caso, come l'occhio di una divinità, la voce dell'oracolo, quest'occhio e questa bocca allo stesso tempo, aveva bisogno di un contorno, di essere ben visibile anche da lontano, come fosse l'occhio e la bocca di un Dio dipinto sulle pareti o sui vasi dagli antichi. L'occhio di colui che conta, che ti scruta, ti ascolta, ti indaga, e alla fine ti giudica, fissandoti dritto negli occhi, e spalancando la bocca per il temuto giudizio finale. Un contorno che significa nobiltà d'animo e autorità scientifica, non vanità, solo saggezza e scienza uniti pacificamente tra loro, per il bene mio e tuo.
Ecco, il lavoro è finito, anche questo lavoro, che avrà questo nuovo titolo “Silenzio 21/2”, dopo averci appuntato sopra l'occhio-specchio, può dirsi terminato. Attenti però, perché termina un lavoro, ma ne devono necessariamente iniziare molti altri. Sta per arrivare una valanga di specchi, e per questo siamo tutti fregati, io per primo. Infatti, oggi è il 19 luglio e nel frattempo che scrivo e rileggo e aggiungo e cambio allo stesso tempo, ho terminato anche “Silenzio 21/3” e “Silenzio 21/4” quest'ultimo fresco di tutto terminato mercoledì 14 luglio 2021; il più bello della serie, per me.
Io sono come un granellino di sabbia sulla spiaggia di Ostia, che conosco benissimo; apparentemente non conto un cazzo, ma esisto, ci sono, e la spiaggia di Ostia, se esiste, esiste anche per merito mio.

Grazie dell'attenzione prof. Sgarbi, non me ne voglia se ho detto qualcosa che non ha condiviso, o se mi sono espresso male, ma questo sono “Io”. Vorrei essere perfetto, al 100%, ma non lo sono, non ancora, per questo mi perdo sempre qualcosa, inciampando, quasi sempre, su me stesso. E a forza di inciampare e di rialzarsi, si matura, si invecchia e si impara. Si impara a capire tante cose, in particolar modo ciò che conta davvero e ciò che non conta un... ; dai facciamo i bravi questa volta, diamoci un contegno e chiudiamola qui con un semplice cavolo.
Con rispetto, con ammirazione e, perché no, per tutto quello che mi sono “dovuto” ascoltare, a volte “subire” ( non sempre lei ha parlato di arte in contesti in cui si doveva parlare di arte e, per essere presenti in quei contesti creati per l'arte, io mi sono speso ferie e soldi, ma tant'è... ), al netto di tutto, per tutto quello che lei è e rappresenta, e affinché lei possa continuare ad esistere, non si preoccupi di esagerare, esageri pure, continui così; anche con sincero affetto.

Mauro Pavan

PS: Per ultimo, a conclusione di questa mia presentazione che spero vivamente qualcuno (in verità io l'ho scritta per il prof. Vittorio Sgarbi) si prenderà la briga di leggere, diversamente, scatenerò l'inferno, desidero esprimere un desiderio; concedetemelo!
La molla che mi ha spinto ad aderire a questa iniziativa, di cui ringrazio la dott.ssa Leonarda Zappulla, è stato un unico e preciso motivo, quello di poter rendere felice mia mamma, ringraziandola per tutto quello che mi ha concesso di fare fintanto che ho avuto la fortuna di averla con me. Non importa se io sono cresciuto nei collegi, con i nonni o da solo, non importa. Quello che conta è che mia mamma per me ha fatto tutto, tutto e molto più di tutto. Mi ha messo al mondo come ragazza madre, per darmi un futuro si è sposata e rimasta vedova dopo tre anni. Per darmi un futuro serio e onorevole mi ha messo in collegio, dove, devo ammettere, non mi mancava nulla, nulla che non fosse la sua presenza. Al liceo, per i primi due anni, ero dai nonni ma lei mi manteneva, lavorava e soffriva tanto per non farmi mancare nulla, e non mi faceva mai mancare nulla. Tutto questo fintanto che non ha conosciuto “quell'uomo” che poi ha sposato. Un uomo che non mi ha mai voluto tra i piedi, e che io non ho mai voluto tra i miei di piedi, ma al netto delle nostre antipatie e inconciliabili caratteri, la persona che più di tutti ne ha pagato le conseguenza, è stata sempre e solo lei, mia mamma. Dal 1978 se n'è andata a vivere con Giovanni a Portoferraio, sull'isola d'Elba, nel 1981 si sono sposati e da quel momento, dopo aver pagato a quest'uomo “tutto d'un pezzo” la sua separazione (sì, signore e signori, mia mamma ha pagato e questo “bel signore” la sua separazione, visto che lui, a quanto risulta, non aveva un soldo, a parte la sua parlantina da “so tutto io”, che a Verona, in dialetto, si chiamerebbe “el saon”, il saccente), ne è rimasta, suo malgrado vittima sacrificale. Troppo debole mia mamma per opporsi, troppo debole per contrastarlo, troppo debole su tutti i fronti, povera Enrica, povera mamma. Lui le ha sempre fatto pesare che suo figlio, io, Mauro Pavan, nella vita non avrebbe mai e poi mai fatto niente di buono, mente suo figlio di Firenze, Sandro, lui sì che si è realizzato; per non parlare dei suoi due nipoti, cresciuti da mia mamma, la loro nonna, ma che una volta diventati grandi sono spariti dalla circolazione. Giovanni, il marito di mia mamma e suo figlio Sandro, mano a mano che passava il tempo, hanno cercato di isolare mia mamma; da me, dai suoi parenti, dai suoi nipoti, da tutti. Però, da quando mia mamma mi ha visto, a luglio del 2020, dopo le due ore che lui le aveva concesso di passare con me undici anni prima, è come se fosse rinata, è come se avesse preso forza per alzare, in extremis, visti i suoi 84 anni, la testa, e provare a dire e ribadire, che le cose non sono andate proprio come suo marito avrebbe voluto che andassero. Suo figlio Mauro sta bene, gode di buona salute, lavora, è ancora un bell'uomo – passatemela -, a differenza di suo figlio e di suo nipote, oggi separato e ridotto non proprio bene, giusto per non essere cattivo con chi non c'entra e, inoltre, Mauro sta facendo quello che voleva sempre fare fin da quando - solo mia mamma può capire -, vale a dire fin da quando mia mamma mi ha visto nascere e crescere coi colori, le matite, le tele e i libri in mano. Mia mamma ha fatto molti sacrifici per suo figlio, il suo unico figlio, e oggi, suo figlio Mauro Pavan, con questa adesione, l'adesione a questo progetto dal titolo “I Narratori del Nostro Tempo”, a cura del prof. Sgarbi, vuole, desidera, ringraziare pubblicamente questa santa e grande donna, la sua mamma, mamma Enrica.
Chiedo che mia mamma venga menzionata, alla fine di tutto, e ringraziata dal prof. Sgarbi, anche solo con un semplice: Grazie alla mamma di Mauro Pavan, sig.ra Enrica Dossi, per aver dato a suo figlio Mauro la possibilità di crescere e di vivere con l'arte e per l'arte, grazie a mamma Enrica.
Il solo pensiero che Vittorio pronunci questa frase, suppergiù, tutta rivolta a suggellare il bene e il ringraziamento per tutto quello che ha fatto per me, la compenserebbe di tanti anni in cui ha sofferto moltissimo per il nostro distacco, di cui, da un po' di anni a questa parte, si sente fortemente in colpa. Con questa menzione, io desidero farle capire che è tutto a posto, che suo figlio non le rimprovera nulla, e che se la vita è andata così, ha sofferto lei come ho sofferto io, ma questo non ha mai impedito che ci volessimo bene, anche se lontani l'uno dall'altra.

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INOLTRE:
Oggi, 20 luglio 2021 sono andato in colorificio e mi sono trovato una sorpresa per nulla da me apprezzata, una sorpresa che mi ha fatto incazzare a dir poco. Sono aumentati del 20% ca. tutti o quasi i prodotti di belle arti, tele, colori, pennelli, vernici, e tutto il resto a seguire. Cari signori che con la nostra arte ci vivete, ci campate, ci fate sopra la cresta facendovi bellli voi, regalando a noi una pergamena da 2/3 euro cad., una targa da 12/16 euro cad. incisione compresa quando si parla di grandi quantità, 10 righe di cazzate scritte con l'aiuto del copia e incolla, che a volte non le scrivono nemmeno chi le firma, e una pagina su un “catalogo” di arte che per essere definito tale, gratuitamente e ad onorem , necessiterebbe di almeno tre virgolette prima e tre dopo aver usato tale sostantivo. Voi spendete per ciascuno di noi all'incirca 60/80 euro, e noi ve ne paghiamo 300. Questo, sempre all'incirca, il giro mafioso degli affari all'interno di quasi tutti, più o meno, i cosiddetti “eventi” dell'arte. Eventi sbocciati come sbocciano le roselline nelle siepi delle rotonde delle città e fuori città. Gli stipendi restano sempre quelli, i materiali rincarano, rincarano pure le somme da versare per partecipare a tutti i giochi olimpici dell'arte organizzati da chi l'arte dice di conoscerla e di amarla (e ti credo, ci mancherebbe altro che non si amasse l'arte, finché l'arte tira), e noi, poveri cristi (appassionati e hobbysti della pittura e artisti veri, in questo caso possono stare almeno per un poco insieme), a lavorare per loro, visto che sono loro a decretare il buono di ciascuno di noi. Tranqulli pittori e artisti, tranquilli, per loro noi siamo tutti buoni, tutti bravi, tutti meritevoli, tutti degni di esporre, tutti poeti dell'arte, tutti veri creativi, tutti che mettono la loro anima in quello che fanno, a prescindere da quello che fanno, tutti promossi insomma. Per loro noi siamo tutti un mucchio di allocchi buoni solo da spennare vivi. Certo, da spennare da vivi, perché loro sanno che da morti, la stragrande maggioranza di noi, non varrà più una emerita minchia. Da morti, loro sanno benissimo che la stragrande maggioranza di noi, a loro, non servirà più a niente, in quanto non potrà più pagare niente e nessuno.
E' obbligatorio partecipare a questo gioco al massacro? No, no di certo, ma in qualche modo sì, fintanto che saranno solo loro a muovere le fila di questo giocattolo. Ci vuole un rimescolamento delle carte, per capovolgere la situazione. Un pool di mani e di coscienze pulite, un pool di artigiani veri dell'arte, che si organizzino con o in un sindacato apposito e dagli artisti medesimi sostenuto, e che si ponga, in qualità di meditore, tra chi lavora e lavorando bene desidera la giusta visibilità e conoscibilità, e chi da questa visibilità ne trae profitto economico immediato, e non post mortem, vale a dire tutti loro.
Arriveremo a fare questo, a organizzare questo? Arriveremo a mettere la parola fine a tutto questo bailame di eventi di qua ed eventi di là di cui non si capisce più una minchia di cosa è buono e giusto fare, e di cosa se ne farebbe volentieri a meno perché a una minchia serve?
Artisti veri, svegliamoci, uniamoci, facciamo squadra per tutelare i nostri interessi e la nostra serietà professionale. Siamo noi, noi artisti veri, a dover essere pagati, non loro a chiederci soldi per sfruttare il nostro lavoro, il nostro ingegno, creatività, che poi è sempre bello e figo infiocchettare e vendere facilmente sotto il solito brand del Made in Italy. Ben inteso, l'alleanza tra gli artisti è comunque limitata alla sola “lotta” di bottega, indipendentemente da ciò che ciascuno di noi fa. Artisti veri, quello sì, poi il resto poco importa in cosa consista questa indiscussa e inconfutabile verità artistica.
Ma cosa farete voi, cosiddetti veri artisti se poi manca chi vi legge, chi vi interpreta, per poi, alla fine della lettura, divulgare a tutti chi siete e cosa fate? Tranquilli cari signori amanti delle poltrone e poco inclini, in quanto disabili in questo, a sporcarvi le mani, ci pensiamo noi, sì, ci pensiamo noi, noi medesimi! La chiave di tutto sta nel fatto che a loro dà non poco fastidio, che qui si parla di “veri artisti”, non di bobbisti, categoria a voi-loro molto cara e da voi-loro molto sfruttata.
Ma ci torneremo ancora sull'argomento, e sapete perché? Perché continuare così non è dignitoso per i veri artisti, non lo è più. Siamo stanchi, mortificati, e facciamo sempre più fatica a vivere con dignità, tanto ci costa in termini di sacrifici e di denaro, di privazioni personali, pagare continuamente tutto e sempre troppo per ogni minima cosa che facciamo.
Fare arte vera costa, si sacrifica una vita intera per questo, ebbene, che ci siano allora anche le Istituzioni che si occupino di mantenere viva, in vita, la vita dei veri artisti. L'arte è patrimonio di tutta l'umanità, del paese dove si produce in primis; ebbene, che ci venga riconosciuta una quota che vada a coprire almeno le spese vive per i materiali, dietro presentazione dello scontrino fiscale s'intende, almeno quello, ma che si faccia, ma che ci si dia una mossa per questo. Se vogliamo che l'arte viva, che si produca arte nuova, aiutiamo subito chi l'arte la fa, ancor prima di spendere tutti i soldi per tutta l'arte che è già stata fatta.